Profilo spirituale di Umadevi
Introduzione
Non si può osservare direttamente il proprio profilo. Lo si può scorgere solo grazie alla giustapposizione di due specchi, cioè nella distorsione di un doppio riflesso, o percepire grazie a un disegno o una fotografia fatti da altri, cioè attraverso uno sguardo esterno. Certo, si può fare anche una fotografia del proprio profilo in autonomia, ma anche in questo caso, facendolo, non ci si guarda e non ci si vede. Il profilo di qualcuno può essere realizzato solo quando la persona ritratta non guarda il suo ritrattista, il che dà all’artista la giusta distanza e tranquillità di uno sguardo distaccato, togliendo però la vitalità del contatto visivo, quando l'anima si riversa nell'anima. Nel ritratto di profilo c'è sempre qualcosa di più e allo stesso tempo qualcosa di meno.
Una persona, attraverso l’osservazione del proprio profilo, comincia a percepirsi in modo nuovo, coglie un aspetto insolito del proprio volto, perché comincia a capirsi non nell'immediatezza del riflesso di uno specchio, in cui è abituato e vedersi, ma di lato, attraverso l'occhio di qualcun altro, si percepisce, per così dire, da lontano. Grazie al ritratto di profilo, non solo si vede se stessi in una nuova luce, ma si comincia anche a capire come ci vedono gli altri. Grazie al profilo, si va oltre la relazione chiusa io-con-me-stesso e ci si comincia a vedere come un “tu", come un lui o lei.
Tracciando un profilo spirituale di Wanda Dynowska (Umadevi) vorrei cogliere alcuni tratti caratteristici della sua personalità, quel "qualcosa" che non era necessariamente visibile a lei direttamente, ma che la animava dal di dentro e che col tempo ha contribuito a creare quello che possiamo chiamare un "ritratto iconico". È questo ritratto iconico che ha ancora un effetto così forte su coloro che seguono le vicende della sua vita e le sue linee delineano un tale profilo spirituale da determinare la bellezza e la potenza di Umadevi.
Altra cosa da decidere quando si fa un profilo è se farlo da destra o da sinistra. Tuttavia, il profilo spirituale è libero dalle condizioni di spazio o dilateralità e non solo permette, ma esige, la presentazione di ambedue i lati di una sagoma. Per la logica storica e scientifica, questo sembrerebbe essere ambiguo, ma in termini spirituali i poli opposti non si escludono a vicenda, ma sono complementari.
Un profilo viene sempre realizzato su uno sfondo. Il profilo e lo sfondo si influenzano a vicenda, uno non esiste senza l'altro. Su quale sfondo possiamo presentare il profilo spirituale di Dynowska? La risposta più semplice sarebbe: sullo sfondo della sua epoca, cioè sullo sfondo storico, ma allora non si tratterebbe di un profilo spirituale, ma di una biografia, un modo nobile, classico e popolare di presentare una figura nella nostra cultura. Un profilo spirituale non è una biografia, quindi il suo sfondo non è nemmeno storico, anche se questo non significa che sia a-storico. In ogni caso, non usa solo i colori della storia. Se vogliamo cogliere il profilo spirituale di Wanda Dynowska in una visione bilaterale, dovremmo guardarla contemporaneamente dall’Est e in questo caso lo sfondo sarà l'Ovest, e simultaneamente da Ovest con lo sfondo dell’Est. Ovviamente, l'Est e l'Ovest sono più che semplici direzioni o zone geografiche e qui hanno pure un significato simbolico. Oriente e Occidente sono archetipi che esistono in ogni essere umano.
Quando traccio il profilo di Wanda lo sfondo è l'India, quando ritraggo il profilo di Umadevi lo sfondo è la Polonia. La dualità del nome Wanda-Umadevi, cioè due in uno e uno in due, è la prima caratteristica del profilo spirituale di questa donna. Due in uno e uno in due è una sfida alla logica che poggia sul principio di non contraddizione. Logicamente, Dynowska può essere tanto Wanda quanto Umadevi e chi ne farà un profilo unilaterale parlerà di una polacca, di una cattolica, percependo la sua avventura in una prospettiva cristiana, oppure enfatizzerà la sua "indianità" inglobando in essa la sua polonicità, occidentalità e cristianità. Basta pensare a come i cattolici cercano di assorbirla nella loro sfera parlando del suo incontro con Wojtyla o degli ultimi momenti della sua vita quando ricevette i sacramenti della Chiesa e poi si sedette in posizione meditativa per passare all’altra riva. Gli indù, invece, presteranno attenzione alle parole di Ramana Maharshi o di Gandhi che, in modo tipicamente indiano, parlavano di come la Dynowska "è stata loro da sempre", che l'India l'aveva chiamata a sé dall’eternità, cioè che lei innanzitutto era una indù. Tale rappresentazione logica di lei poggia sull'esclusività e funziona attraverso le negazioni: Wanda non è Umadevi, e Umadevi non è Wanda. Ma a dire il vero Dynowska non è soltanto Wanda che esclude Umadevi e viceversa, ma qualcuno che unisce Wanda e Umadevi. Dynowska è Umadewi e Wanda, Wanda e Umadevi sono Dynowska. La combinazione di questi due aspetti costituisce una delle caratteristiche della sua spiritualità. Questo è stato per lei possibile perché ha sperimentato ciò che nella tradizione orientale si chiama advaita, la non dualità, di cui ha scritto in una delle sue composizioni poetiche:
Dove sei?
A colui che mi ha mostrato la meravigliosa bellezza dello shivaismo del Kashmir -
Swami Lakshmandji, da Isabar, in Himalaya - dedico.
Misteriosa è la via, ignota e terribile;
dolce con i lampi del tuo sorriso -
ma che non sarà mai capita.
C'è un punto tra i due poli
Parama-Shiva e Para-Shakti -
La Visibile Manifesta e il Sempre Nascosto.
Attraverso questo punto Tu, o Amato, guardi,
Tu - la luce luminosa della mia anima,
il midollo del midollo, il respiro essenziale del mio essere.
Proprio lì aspetti e permani nell'eternità dell'immobilità,
In mezzo, sempre tra due.
C'è un punto misterioso tra il giorno e la notte -
Il preludio dell’alba e l’ultimo bagliore del tramonto;
I tuoi sono, o Shiva.
Nel ritmo regolare del respiro,
quando la benedizione soffia nel mondo
e di nuovo nelle profondità della "terra" ritorna a noi,
c’è un punto - sospeso in silenzio,
l’incontro di due archi, l’unione di due ritmi.
Ed eccoti qua.
E tra l'ultimo bagliore del pensiero, la sua ombra,
e un’altra luce – che la gente chiama sogno -
uno strano limite,
dove la vista dell'anima può stendersi in entrambe le direzioni,
c’è un punto - come l'occhio dell'infinito.
E in esso Tu sei.
Tra le leggi dell'obbedienza visibile,
l'orgoglioso desiderio di libertà dell'anima
e la triste – opposta a tutto - sfida
c’è il punto,
O Signore, so che là anche tu sei.
Perché le lacrime coprono gli occhi,
Anche se il cuore la dolcezza della Tua presenza,
sembra percepire vicina e tuttavia sfuggente;
Volatile e seducente; non so da che parte,
in me, o intorno a me, qui, là, da nessuna parte o ovunque.
L'anima deve attraversare questo punto da sola,
Come? Non lo so.
Ma so che niente tranne lei, nuda,
indifesa e sola, non può passarci.
Volontà e pensiero, rettitudine e fede,
amore e convinzione,
persino la sua stessa esistenza,
devono rimanere da questa parte.
Solo lacrime - una rugiada, un simbolo,
un ricordo - possono fluire lì,
come un'eco lontano della terra.
Questo si chiama sacrificio?
Non lo so.
Si chiama la tua distruzione
di volontà, di rettitudine, di felicità, di amore -
affinché l'anima possa trovare te solo
e in questo punto senza nome,
incomprensibile al pensiero,
può continuare a vivere?
Non lo so.
Non è che di questo incomprensibile sacrificio l’ombra
sia la mancata voglia di esistere;
stanchezza dalla fame unica,
ancora insoddisfatta?
O Signore, dove sei?
In questo punto? Invisibile, nascosto,
O velato dalle mie lacrime,
Tu, grande e silenzioso Yogi dell'universo,
dove sei?
(Maysor, Montagna della Dea Cymundi, dicembre 1936; tutte le traduzioni sono di M. Bielawski)
Dynowska ha sperimentato e ha realizzato in sé questo punto, che trova la sua conferma anche nei suoi due nomi: Wanda e Umadevi. In un profilo spirituale, i nomi non sono etichette esterne, ma toccano le profondità e l'essenza della persona ritratta. Direi ancora di più, è proprio la distanza tra Wanda e Umadevi a evidenziare questa profondità. Wanda, come molti nomi, è un nome polisemico, cioè non riducibile a una sola radice. Essa deriva dall’antica parola slava "węda", che significa canna da pesca. Ecco come doveva essere la leggendaria principessa Wanda, figlia del re Krakus, il cui bellissimo aspetto catturava il cuore dei cavalieri dell’epoca (come un amo da pesca). Wanda deriva anche dal lituano "vadene" che significa apparizione (rusałka) e dal "vadno" che significa acqua. In germanico, "Wenedka" significa una donna soraba o slava. Riassumendo questi tre significati, possiamo dire che Wanda è una bella apparizione femminile slava comparsa accanto alle acque. È curioso notare che nello stesso periodo in cui Wincenty Kadlubek (1150-1223), un medievale cronista polacco, creava il nome Wanda nella lingua polacca e ne raccontava la leggenda, a Maysor viveva Umadevi (1150-1218), che era una delle mogli del re Veer Ballab II. Nella cultura indiana Umadevi prima di tutto indica la dea Paravati, la compagna di Shiva. In sanscrito “Uma” significa splendore e luce, ma anche pace e serenità. "Devi" può significare dea, madre o moglie di un dio, o semplicemente una donna bella. In una parola, Umadevi significa una dea bella e luminosa o semplicemente una donna bella e radiante. Infine aggiungerei che unendo le lettere del suo cognome e i diminutivi di Wanda, come Dula, Dusia, Dziunia, almeno dal punto di vista fonetico vi è solo un passo dal nome Umadevi, ma questo è ovviamente solo un gioco o una coincidenza a cui non occorre dare molta attenzione.
Wanda-Umadevi appartiene a quelle figure, non così…. nella storia, che uniscono in sé due o più culture e così si elevano al livello di simboli per l'umanità. Dynowska non era schizofrenica. Non era mezza polacca e mezza indiana, ma grazie alla profondità della sua esperienza esistenziale, alla sua ricerca e al suo coraggio, era al 100% entrambe le cose. Le sue poesie che possiedono un sapore mistico sono state scritte in polacco, ma tinte di induismo e appartengono ad entrambe le culture. Questo aspetto spirituale e dialogico di Dynowska ha trovato la sua espressione nella sua attività letteraria concretizzatasi nella “Biblioteca polacco-indiana”, una numerosa serie di pubblicazioni che includevano le traduzioni dei classici di entrambe le culture, accompagnate da studi e testi più recenti. Ha detto che facendolo voleva: "Mostrare l'anima della Polonia all'India, anche se solo a un piccolo gruppo di persone interiormente risvegliate e di mentalità aperta... Mostrare l'anima dell'India ai polacchi, anche se solo a pochi, che possiedono ampie vedute e sono privi di pregiudizi razziali e religiosi, che amano l'uomo indipendentemente dalla parte del mondo in cui abita, che rispettano e apprezzano il pensiero umano creativo, a prescindere dalle forme e dai simboli in cui si esprime - questo è uno dei principali obiettivi dei miei molti anni in India”. La dialogicità mi sembra essere una delle qualità più importanti e notevoli di questa figura. È il risultato e il frutto della sua spiritualità.
Incanto e disincanto
Secondo la tradizione occidentale, il percorso filosofico, nel senso di cercare la pienezza di vita, la realizzazione e la felicità, inizia con l’incanto (thaumàzein). Platone nel Teeteto (11,155d) dice che un filosofo deve essere suscettibile a questo tipo di esperienza ed è questo che fa di una persona un filosofo. Aristotele ritiene che è attraverso l'estasi che gli uomini cominciano a filosofare (Met. 1,2,982b.12). È l’estasi che stende davanti all'uomo l'orizzonte del mito, attraverso il quale il mondo diventa casa e la vita è vista come un viaggio.
Invece secondo la tradizione orientale tutto inizia con il disincanto, il cui secondo nome è disperazione. Il principe Arjuna è sconvolto dalla situazione in cui si trova, ed è questa situazione che lo spinge al dialogo con Krishna. Buddha scopre che tutto è sofferenza (dukkha), illusione, instabilità, che il mondo è in fiamme: la nascita è dukkha, la malattia è dukkha, l'invecchiamento è dukkha, la morte è dukkha; la disperazione, il lamento, il dolore e la tensione sono dukkha; l'associazione con l'indesiderato è dukkha; la separazione dal desiderato è dukkha; il fallimento nel raggiungere il desiderato è dukkha. Dal disincanto totale nasce la nobile disciplina della rinuncia.
Nel caso di Dynowska, questi due aspetti, incanto e disincanto, luce e oscurità, si intrecciano per creare una delle caratteristiche principali della sua spiritualità. A mio parere, sarebbe fuorviante ed errato cercare un unico fondamento (arché) che muova la Dynowska in senso cronologico, cioè rintracciare il momento da cui è scaturito tutto nella sua vita. Sono incline a parlare piuttosto di due tendenze permanenti, che si intrecciano nell’arco della sua esistenza.
Era incantata dalla bellezza della natura ovunque andasse, dall'armonia della vita nella sua casa di famiglia e negli ashram, dalla bellezza della saggezza delle opere letterarie che si dedicò a leggere per tutta la vita, dai volti delle persone a lei affini, che rintracciava ovunque, dall'amore, dal desiderio di fare del bene, di essere utile e buona. C’era in lei una forza motrice carica di armonia, pienezza, bontà. Una volta, trovandosi sulle montagne di Tatra, espresse la sua ammirazione nel modo seguente: “L'anima non può comprendere l'immensità o la scala della bellezza inconcepibile. Ricchezza, splendore, eccesso - semplicità della bellezza. Infinitamente grande e infinitamente piccolo - due estremi. Giganti della montagna di fronte; e qui, ai piedi - ogni foglia, filo d’erba e muschio, ogni linea di pietra, ogni colore di ramoscello... senza fine, senza fine. Non si può girare lo sguardo da nessuna parte senza incontrare un miracolo. Due estremità... E ogni mezzatinta, ogni sfumatura, ogni gradino tra loro, è perfetto, finito, sorprendente e.... Bellezza terrificante”. (Settembre in Morskie Oko).
D'altra parte, Dynowska perde e abbandona: la sua casa, un uomo amato, un leader ammirato (Piłsudski), la sua patria, l'armonia così promettente della società teosofica dopo l’allontanamento di Krishnamurti. Vuole darsi alla contemplazione ma viene ostacolata da polacchi giunti in India dalla Siberia, da tibetani anch’essi rifugiati in India ed infine, senza più forze, muore.
Awicz
O Signore, la vita è fuggita e non vuole tornare.
E non so dove sia la strada,
E perché andare verso qualcosa.
E perché l'esistenza stessa.
Morto, sterile tutto
Come un terreno incolto e cinereo.
Il cuore ha smesso di battere.
Il pensiero si è inaridito.
L'anima si è fermata,
come un orologio stanco.
Ieri... soffiava un vento possente
e si svolse un grande dramma,
scritto nel sangue vivo.
Ieri tutto bruciava e scintillava,
saltando fuori dalle forme con un gioco di luci e colori;
concentrato, guardando in uno di essi,
che pulsa con il respiro interiore,
ieri - un grande Mistero
nella vita che stava diventando.
Oggi...? Non la vita, ma la freddezza della scena circostante,
tutti sbiaditi e morti.
Sbiadito, vuoto, incolore,
spogliato di fascino. Blando.
La vita se n'è andata e non vuole tornare;
E il cuore ha smesso di battere...
La fede può essere evocata a comando?
Le mani possono essere ritirate dall'officina,
quando l'anima corre dietro alla navetta.
Non è forse un'illusione, un indegno autoinganno?
Un muro nero davanti a me,
E piombo nel mio sangue.
Il pensiero è lanciato. E si libra con una domanda.
E urla. E cade con una domanda.
Il pensiero si agita, colpisce l'inconcepibile
E sta fermo.
L'anima si è fermata, come un orologio stanco,
E il cuore ha smesso di battere.
Oscurità ovunque.
O Signore, perché e verso cosa stiamo andando?
(Maanwadi, Verde, Dicembre 1936)
Umadevi ha vissuto la sua vita tra l'estasi e la disperazione, tra la pienezza e il vuoto, tra l'appagamento e l’insoddisfazione, tra la pace e l’amarezza. Queste due caratteristiche, come due venti, soffiavano costantemente sul suo viso, influenzando il suo profilo spirituale. Ha ceduto ad entrambi questi venti e ha condotto la barca della sua vita sotto l'influenza dell'uno o dell'altro. Andava avanti quando i venti erano favorevoli, ma non si arrendeva quando i venti erano contrari.
Risveglio
Ad un certo punto, Dynowska sperimentò un risveglio spirituale. Non è chiaro quando e perché. La risposta a tali domande generalmente dipende dal contesto in cui vengono poste. Il cristianesimo parla di vocazione, il buddismo di risveglio della mente (bodhi-citta-utpada). Il primo parla di grazia, il secondo sottolinea l'intreccio karmico. Comunque sia, in base ai fatti della vita di Dynowska, possiamo dire che in un momento preciso qualcosa l’abbia toccata, qualcosa le è stato dato, qualcosa l’ha spinta verso il cammino spirituale. Gli incontri con i teosofi? Letture di libri su argomenti spirituali? Erano in definitiva esperienze incomprensibili e inconcepibili al cui influsso era impossibile sottrarsi? Non sappiamo. Non c'è una causa unica per questo tipo di esperienze che, in fin dei conti, non si prestano ad analisi filosofiche, teologiche o psicologiche. Tuttavia, è importante che qualcosa sia nato in lei, che Dynowska abbia lasciato che questo qualcosa si sviluppasse nella sua vita e che la guidasse. Non sappiamo se questo tipo di esperienza sia rara e riservata a pochi eletti, o universale e data a tutti. Il Buddha dice che incontrare il dharma e sottomettersi ad esso è come il trovare, per una tartaruga, un giogo di legno nel mezzo della vastitudine di un oceano. Cristo dice che molti sono chiamati, ma pochi scelti. In ogni caso, si tratta di una certa unicità e dell'emergere di un grande spirito (mahatma). Senza dubbio, nel caso di Dynowska abbiamo a che fare proprio con tale evento che, dato in segreto, si rivela all'esterno, si cristallizza e cresce nel tempo facendosi ogni tanto persino percepire dagli osservatori esterni.
Il risveglio spirituale porta a una pratica di vita sempre più profonda e ampia, attraverso la quale lo spirito si irrobustisce e impregna la vita della persona. Nel cristianesimo abbiamo il bel concetto di epektasis, o corsa in avanti, segnalato da Paolo di Tarso (Fil 3,13) e sviluppato da Gregorio di Nissa. Si tratta di una specifica tensione e fascinazione per l'infinito, che libera un’energia interiore e provoca un tendere verso tale infinito con sempre maggiore intensità. Una sorta di liberazione e libertà.
È sorprendente come Umadevi si protendesse in avanti, come disinibita, come osasse entrare nel nuovo e nell’ignoto quasi deliziata da una tale incomprensibilità. Si è mossa dalla casa di famiglia alla Società teosofica, da Krishnamurti a Raman Maharshi e Gandhi, e poi a Lakshman Joo e al Dalai Lama tibetano, senza abbandonare la calma meditativa. Stabiliva il tempo per la contemplazione, senza perdere di vista i bisognosi che comparivano sulla sua strada come i polacchi dalla Siberia o i tibetani espulsi dalla loro patria a causa dell’invasione cinese.
Questa donna possedeva una sorta di bussola spirituale che la conduceva alle grandi spiritualità del suo tempo mentre, contemporaneamente, con la sua radiosità era in grado di toccare varie persone incontrate nel lungo cammino della vita. Sarebbe stato impossibile, o almeno inspiegabile, senza un risveglio spirituale vero e proprio.
Messianismo
Il messianismo è una credenza o convinzione che una certa situazione possa essere modificata con l’intervento di qualche mezzo. Per “situazione” si può intendere la condizione in cui si trova una singola persona, un gruppo di persone o il mondo intero. “Cambiamento” implica che una data situazione è imperfetta ma anche suscettibile di trasformazione, il che può significare essere allontanati da qualche luogo opprimente come la schiavitù, ma anche da una situazione migliore in termini di salute, benessere, libertà o conoscenza. “Mediazione” invece indica un agente, che può essere “qualcuno” (una persona, un gruppo di persone come nazione, Dio) o “qualcosa” (energia, grazia, scienza, ecc.). Un tale “qualcuno” di solito è visto come dotato di qualcosa di unico, che il contesto imperfetto non possiede, ma che tuttavia può essergli in qualche modo dato, comunicato, svelato, e che il contesto imperfetto è in grado di assorbire fino ad esserne migliorato. Entrare in relazione con un tale agente speciale, che può essere chiamato anche messia (unto, cioè assegnato e consacrato), può significare sottomettersi a lui e adorarlo ma anche mettersi al suo servizio e diventare una sua estensione tramandando il suo potere agli altri.
Sono convinto che Wanda Dynowska Umadevi abbia vissuto nel mito del messianismo. Quello che ho chiamato “disincanto” potrebbe indicare varie esperienze e situazioni della sua vita, intrise della consapevolezza dell’imperfezione e della sofferenza. Tra questi: i fallimenti personali, la situazione della nazione polacca o dei popoli dell'India, la situazione generale dell'umanità che vive nel buio dell'ignoranza e soffre per le guerre. Quello che ho chiamato “incanto” sarebbe stata la convinzione dell’esistenza di una genialità, un insegnamento o una persona in grado di cambiare lo stato di delusione e dolore. Da qui la devozione di Dynowska all’idea della nazione polacca o indiana e alle figure dei vari maestri spirituali. Così le sue convinzioni che certe idee provenienti dalla Polonia avrebbero potuto migliorare l’India e che gli insegnamenti dei maestri dell’India avrebbero potuto contribuire al miglioramento della vita in Polonia sono parte della sua spiritualità messianica.
La metafora spirituale del messianismo suppone la convinzione che l’ardore e l'ansia che consumano l’essere umano dall’interno sono anche il principale carburante per le sue attività. Umadevi, avendo sperimentato una volta questo ardore in sé, lo alimentava col desiderio di diffonderlo agli altri. C’era in lei questa “santa inquietudine”, che durante tutta la vita la spinse a varie attività come imparare, cercare maestri e studiare i loro insegnamenti, coltivare la disciplina interiore e la conoscenza contemplativa, tradurre testi, viaggiare, tenere conferenze e organizzare varie strategie di aiuto concreto per le persone afflitte incontrate nella sua vita. La sua straordinaria abnegazione non era altro che un’attività strettamente legata alla sua convinzione messianica.
Non so se Umadevi abbia conosciuto il ciclo buddhista dei dieci disegni che presentano “La ricerca del toro”, ma credo che alla sera della sua esistenza avrebbe potuto riconoscersi nel commento all’ottavo disegno che dice: “Un tempo volevo salvare il mondo intero. Ma ecco una sorpresa straordinaria! Non c'è nessun mondo da salvare. Le parole non possono esprimere questo (nuovo) stato. Maestri-discepoli: non c'è più niente. Enigma. Chi potrebbe accettare una tale verità? Chi sarebbe in grado di trasmetterlo?”. In ogni caso mi piace pensare che il suo cammino sia giunto, ad un determinato momento, a tale traguardo liberandola persino dal suo messianismo. Tale pensiero mi è suggerito da questo suo poema a cui lei stessa nel momento della pubblicazione ha aggiunto un commento:
Ignoto
La soglia è scomparsa e tutti i contorni sono sfocati.
Cosa so della terra dove sono, o che sono io?
Il pensiero si ferma e io stessa non riesco a sentirne il suono;
Né posso percepire le onde dei sentimenti.
Intorno a me vedo diverse forme, ma anche non le vedo.
Parole che sento da qualche parte in lontananza - eppure non sento.
Il “fuori” non esiste, il “dentro” ha cessato di essere;
Le linee, le divisioni e le forme spaziali si confondono:
“qui-là”, “io-non-io”.
Questo non è né esistenza né non-esistenza.
Questa è la pienezza dell’immobilità o pienezza del silenzio?
Sentimento e pensiero, aspirazione e scopo - cosa significano?
Non lo so. Non riesco a pensare.
Chi sei tu, Signore, e chi sono io?
Non è una corsa o un movimento,
non è l’estasi della felicità
e nessun diluvio gioioso,
nemmeno il miracolo dell’espansione del cuore,
né la scomparsa di qualsiasi “punto” in esso,
né l’infinità del respiro nell’immensità dello spazio.
Cosa sei tu, Signore, e chi sono io?
In quale terra mi hai abbandonato,
Che non è un luogo ma la Realtà.
Non uno stato di sentimenti, né un’immagine di pensieri,
ma la Vita stessa.
Nemmeno un mistero,
ma la più grande semplicità nella pace,
senza attributi, nomi, né forma del contorno,
la pura esistenza.
Mi hai chiamato e sono venuta.
E oggi “io” - è un suono vuoto.
Come adorarti, come portare l’amore in sacrificio,
quando la tua vita non ha limiti -
Dov'è il suo centro e dov'è la sua circonferenza?
e non so dove sono io,
come se fosse una goccia nell'immensità.
So che Tu sei la verità dell'esistenza,
che in te resterò in eterno.
Tutumwannamalai, Ashram, febbraio 1936.
Commento di Umadevi:
In questi versi la paura dell’ignoto scompare e qui si esprime un’esperienza interiore mistica quando la coscienza si eleva al di sopra dei pensieri e dei sentimenti in un nuovo stato, una nuova dimensione o un nuovo stadio dello yoga. Nel tentativo di esprimerlo, i mistici di tutti i tempi hanno usato paradossi, paragoni insoliti e apparentemente insensati. Questo è forse simile al fenomeno che vediamo nella pittura moderna, dove il tentativo di trasmettere movimento e dimensioni superiori in uno spazio bidimensionale, viene rappresentato da scorciatoie apparentemente insensate, linee, piani, ecc.
Mistica
L’affermazione che Dynowska fosse una mistica è una tautologia, perché ogni essere umano è un mistico, e il misticismo non è un sovrappiù eccentrico ma un elemento costitutivo dell’essere umano. Il primo segno del misticismo è l’esperienza e la convinzione dell’unificazione di tutte le cose, il secondo è la consapevolezza della conoscenza al di là della comprensione razionale.
Nell’esperienza mistica è essenziale sentire l’unità del tutto e sapere che anche l’uomo è unito a questa totalità. L’unità appare in modi diversi. Per alcuni, essa riguarda il mondo materiale in tutta la sua complessità, per altri indica l’unione con Dio. Tutto questo dipende da ineffabili convinzioni meta-mistiche che presuppongono una certa visione del mondo, una certa antropologia e una teologia. La mistica può essere senza Dio e persino comportare una negazione cosciente di Dio in nome dell’esperienza e della conservazione dell’unità. La mistica teista è solo una delle possibili mistiche. In Dynowska, l’esperienza dell’unità mistica era teistica.
L’esperienza dell’unità e dell’unione è intrinsecamente accompagnata da una certa cognizione e dal desiderio di comunicarla agli altri. L’uomo semplicemente non può non pensare e parlare. Il mistico, però, paradossalmente si rende conto che la sua esperienza va oltre la possibilità di cognizione e di espressione. In altre parole, sperimenta i limiti della razionalità e del linguaggio. Per questo nella mistica si parla di visione, estasi, paradosso, liberazione dalla mente e silenzio. Questo non significa che il misticismo sia irrazionale, ma evidenzia chiaramente il fatto dell’irriducibilità della realtà e della cognizione all’aspetto razionale. Per il mistico, la razionalità è solo un elemento della realtà a cui non si deve ridurre il tutto. Da qui le dispute dottrinali sulla mistica e il sospetto dei dogmatici verso i mistici. Più importante, però, è lo sforzo del mistico di esprimere l’ineffabile. Il mistico, convinto dell’unità di tutte le cose, non può tacere e lo comunica, perché la comunicazione dell’ineffabile fa parte integrante dell’unità che sperimenta. Il mistico è convinto che l’unica cosa che valga la pena fare è esprimere e comunicare l’inesprimibile. Ecco perché i mistici scrivono, come ha fatto Umadevi.
Non ha inserito il suo misticismo in un sistema filosofico, non si è impegnata in uno sforzo cosciente e sistematico per elaborarlo. Non era un tipo di mistica intellettuale o la fondatrice di una scuola di spiritualità. I suoi scritti sono occasionali, ma tuttavia scrivere e pubblicare vari testi era importante per lei, era parte integrante della sua spiritualità. I suoi scritti sono una collezione preziosa e unica nel regno del misticismo polacco e mondiale. Ecco alcune delle loro caratteristiche.
Nel caso di Dynowska non si tratta di poesia o di prosa a sfondo mistico, ma di testi sensu stricto mistici, che fanno uso di varie convenzioni poetiche. Forse in termini di canoni letterari odierni, anche se relativi, non sono opere di altissimo livello, ma il loro potere e valore non risiede nella sfera estetica, ma nel loro essere impregnati di esperienza spirituale. In altre parole, qui la mistica non è al servizio della letteratura bensì il contrario.
Tuttavia, è anche letteratura, e la letteratura funziona sempre nel contesto di una convenzione predefinita. Per Umadevi questa era costituita dalla lingua polacca e dal suo stile poetico secondo i caratteri assunti tra il XIX e il XX secolo. La sua formazione era avvenuta attraverso tali codici letterari tanto da diventare un naturale strumento per esprimere le sue esperienze spirituali. Questo fatto ha avuto alcune conseguenze, una delle quali è il fatto che i testi di Dynowska possono sembrare a prima vista arcaici e anacronistici, poiché il nostro gusto e lo stile letterario sono nel frattempo cambiati. Lei stessa, dopo l’incontro con la letteratura indiana e aver preso le distanze dal proprio timbro letterario, se ne rese conto sebbene non sia stata in grado di cambiare le cose. Basta però riconoscere tale limite per superarlo e apprezzare i suoi testi.
Vale la pena di sottolineare un certo fatto biografico. Il testo “Settembre su Morskie Oko”, citato sopra, fu senza dubbio scritto in Polonia, ma fu pubblicato in India nel 1948. Fa parte della ricca letteratura che riguardava i Tatra su cui scrivevano molti poeti a partire da fine Ottocento. Il lago noto come Morskie Oko ha ispirato molti artisti e i viaggi verso di esso, lago di montagna, avevano il sapore di un pellegrinaggio. Anche lei ne fece uno in cui ebbe modo di sperimentare qualcosa di unico, che immediatamente annotò. Il processo stesso della scrittura faceva parte della sua esperienza mistica. Anche in India, Wanda portò con sé questo testo. La immagino in viaggio col suo taccuino. Ebbe però modo di pubblicarlo solo dopo più di dieci anni dalla sua creazione cioè solo quando l’esperienza ivi riportata era stata da lei completamente assorbita e mediata da una certa distanza spaziale e temporale.
Confrontando i suoi scritti mistici scritti in Polonia e quelli creati in India, si può dire che la loro convenzione letteraria sia la stessa, anche se i Tatra sono sostituiti dalle montagne indiane e il vocabolario si arricchisce di concetti derivati dal sanscrito. La differenza sta nel fatto che i testi polacchi della Dynowska sono soprattutto “cosmici”, cioè lei percepisce e vive il mistero della realtà soprattutto nel contesto della natura. Le opere indiane, invece, senza perdere questa sensibilità cosmica, si concentrano maggiormente sul divino. In India Umadevi ha scritto di più sulla sua esperienza di Dio. In Polonia, Dio e l’uomo apparivano nel contesto della natura; in India, la natura e l’uomo apparivano nel contesto di Dio.
Ciò che colpisce nei testi di Dynowska è la sua malinconia. In essi emerge probabilmente la sua “anima slava”. Una certa tristezza, che a volte assume la forma di un lamento, è percepibile in molte delle sue poesie. Sperimentando l’immensità dell’unità e dell’unione con il mondo e con Dio, cercando di accettare ed esprimere questa esperienza, Umadevi piange. Sono lacrime di pentimento, di dolore, di delizia e di gioia. Nella sua esperienza mistica è felice nell’infelicità e infelice nella felicità. Questa è anche una peculiarità del suo profilo spirituale. Fu sulle ali di una tale esperienza che si sviluppò in lei la compassione, che a sua volta si tradusse in atti concreti di aiuto alle persone afflitte dal destino.
La sua spiritualità è anche molto femminile. È prevalentemente emotiva piuttosto che intellettuale e speculativa. La ricettività e la compassione sono i suoi segni distintivi. Solo una donna avrebbe potuto scrivere un poema così magnifico come questo:
La preghiera di una madre di sannyasin
Vento, fai silenzio per un po',
per un Darhan a Shiva vai;
non vedi – il buio già cade,
la notte silenziosa arriva.
Guarda, lì tra le ombre e le rocce,
un punto bianco si sposta,
è un bimbo dell’uomo
gettato nel mondo sconfinato.
Non strappare le sue vesti lacere,
non fischiargli selvaggiamente di continuo;
attenua il tuo impeto e taci,
accarezza la sua tempia,
suonagli una lunga e silenziosa canzone,
raccontargli una favola serena,
siigli un buon messaggero
e un amico, per un attimo,
finché sulla porta di qualche rifugio
non poggerà la sua mano stanca.
Oh, Vayu, ferma i tuoi destrieri,
lascia che il timido sussurro del cuore di una madre
giunga alle tue orecchie.
Varuna, Signore dell’Ovest, ascolta,
e ascolta Vayu anche tu!
Oh pioggia, cara pioggia
non precipitarti sulla terra.
Aspetta, Vayu, aspetta un attimo;
guarda in alto, vedi gli occhi delle stelle?
vedi la falce dorata nel sorriso?
Guarda in alto,
fermati per un attimo sulla strada,
come le corde di un sitar...;
Non precipitarti sulla terra;
la notte scende, le ombre vagano...
e in alto è luminoso, vasto...
Lascia che il sussurro delle tue gocce,
prima conti la luna dorata
e a ciascuna presti un raggio,
e dopo, fra un attimo,
(quando il bimbo varchi la porta)
stenderai i tuoi fili luccicanti,
gettando dal cielo alla terra un ponte
illuminando la notte,
il tempietto circonderai con le corde d'oro
e con un nuovo ronzio suonerai un canto a Shiva.
O pioggia, aspetta un attimo,
ascolta il desiderio del cuore materno;
Oh strada, strada sabbiosa,
ripido sentiero tra le rocce,
come supplicarti, come,
puoi cambiare il tuo percorso?
Ma può chiamare
gli sciami dei piccoli amici
- e una piccola fraternità alata -
che spazzerà via gli aghi e le spine dei rami,
che rimuoverà i sassolini appuntiti
e una morbida ragnatela stenderà
sotto i nudi piedi dei mendicanti.
O strada, carissimo sentiero,
tanti piedi scalzi percorrono il tuo tratto,
così tante orme segnano la tua sabbia -
Ma riconoscerai il passo di questo mio bimbo?
Come supplicarti, come?
Come sei saggia,
da secoli conosci ogni passo:
questo stanco – di vecchi contadini -
quello minuto - di donne spossate dai pesi;
lento e gentile - di buoi bianchi,
lunghi e calmi - di grandi elefanti.
Oh, li conosci tutti!
Ogni tocco individui
della sua specifica vibrazione,
Così, quando improvvisamente sentirai un tocco luminoso,
come se scendesse direttamente dal cielo,
di un piccolo e leggero piede -
come se fosse a te apparentato,
come se provenisse dal grembo tuo -
fiduciosamente abbraccialo con la tua sabbia,
rispondigli con un tocco materno,
avvolgilo, abbraccialo, cullalo come una brezza;
nutrilo col proprio respiro.
Perché è il figlio di Shiva che cammina
e a te porta il suo messaggio -
il dono di grande amore.
O strada, strada carissima,
rispondi con un dolce discorso,
benedici i piedi nudi del bimbo,
sii la sua madre - al posto mio.
Bangalore, luglio 1937.
Commento di Umadevi:
Sannyasin, rinunciando alla famiglia, alla casa, vagando da un luogo all’altro, di solito non si ferma da nessuna parte per più di tre giorni, dorme all’aperto o in tempietti lungo la strada e capannoni, il che è estremamente difficile e pericoloso nel periodo di violenti venti e piogge monsoniche. “Gettato nel mondo sconfinato”, interiormente, perché non aderisce a nessuna forma religiosa, né rituale, ecc., cerca Dio da solo; ed esteriormente, perché nulla lo protegge, “non ha dove posare il capo”, a volte vaga affamato, e a volte, come per miracolo, trova frutta, latte, acqua preparati sulla soglia dei templi lungo la strada. Sono stata testimone di molti fatti del genere.
Maciej Bielawski (2014)
Non si può osservare direttamente il proprio profilo. Lo si può scorgere solo grazie alla giustapposizione di due specchi, cioè nella distorsione di un doppio riflesso, o percepire grazie a un disegno o una fotografia fatti da altri, cioè attraverso uno sguardo esterno. Certo, si può fare anche una fotografia del proprio profilo in autonomia, ma anche in questo caso, facendolo, non ci si guarda e non ci si vede. Il profilo di qualcuno può essere realizzato solo quando la persona ritratta non guarda il suo ritrattista, il che dà all’artista la giusta distanza e tranquillità di uno sguardo distaccato, togliendo però la vitalità del contatto visivo, quando l'anima si riversa nell'anima. Nel ritratto di profilo c'è sempre qualcosa di più e allo stesso tempo qualcosa di meno.
Una persona, attraverso l’osservazione del proprio profilo, comincia a percepirsi in modo nuovo, coglie un aspetto insolito del proprio volto, perché comincia a capirsi non nell'immediatezza del riflesso di uno specchio, in cui è abituato e vedersi, ma di lato, attraverso l'occhio di qualcun altro, si percepisce, per così dire, da lontano. Grazie al ritratto di profilo, non solo si vede se stessi in una nuova luce, ma si comincia anche a capire come ci vedono gli altri. Grazie al profilo, si va oltre la relazione chiusa io-con-me-stesso e ci si comincia a vedere come un “tu", come un lui o lei.
Tracciando un profilo spirituale di Wanda Dynowska (Umadevi) vorrei cogliere alcuni tratti caratteristici della sua personalità, quel "qualcosa" che non era necessariamente visibile a lei direttamente, ma che la animava dal di dentro e che col tempo ha contribuito a creare quello che possiamo chiamare un "ritratto iconico". È questo ritratto iconico che ha ancora un effetto così forte su coloro che seguono le vicende della sua vita e le sue linee delineano un tale profilo spirituale da determinare la bellezza e la potenza di Umadevi.
Altra cosa da decidere quando si fa un profilo è se farlo da destra o da sinistra. Tuttavia, il profilo spirituale è libero dalle condizioni di spazio o dilateralità e non solo permette, ma esige, la presentazione di ambedue i lati di una sagoma. Per la logica storica e scientifica, questo sembrerebbe essere ambiguo, ma in termini spirituali i poli opposti non si escludono a vicenda, ma sono complementari.
Un profilo viene sempre realizzato su uno sfondo. Il profilo e lo sfondo si influenzano a vicenda, uno non esiste senza l'altro. Su quale sfondo possiamo presentare il profilo spirituale di Dynowska? La risposta più semplice sarebbe: sullo sfondo della sua epoca, cioè sullo sfondo storico, ma allora non si tratterebbe di un profilo spirituale, ma di una biografia, un modo nobile, classico e popolare di presentare una figura nella nostra cultura. Un profilo spirituale non è una biografia, quindi il suo sfondo non è nemmeno storico, anche se questo non significa che sia a-storico. In ogni caso, non usa solo i colori della storia. Se vogliamo cogliere il profilo spirituale di Wanda Dynowska in una visione bilaterale, dovremmo guardarla contemporaneamente dall’Est e in questo caso lo sfondo sarà l'Ovest, e simultaneamente da Ovest con lo sfondo dell’Est. Ovviamente, l'Est e l'Ovest sono più che semplici direzioni o zone geografiche e qui hanno pure un significato simbolico. Oriente e Occidente sono archetipi che esistono in ogni essere umano.
Quando traccio il profilo di Wanda lo sfondo è l'India, quando ritraggo il profilo di Umadevi lo sfondo è la Polonia. La dualità del nome Wanda-Umadevi, cioè due in uno e uno in due, è la prima caratteristica del profilo spirituale di questa donna. Due in uno e uno in due è una sfida alla logica che poggia sul principio di non contraddizione. Logicamente, Dynowska può essere tanto Wanda quanto Umadevi e chi ne farà un profilo unilaterale parlerà di una polacca, di una cattolica, percependo la sua avventura in una prospettiva cristiana, oppure enfatizzerà la sua "indianità" inglobando in essa la sua polonicità, occidentalità e cristianità. Basta pensare a come i cattolici cercano di assorbirla nella loro sfera parlando del suo incontro con Wojtyla o degli ultimi momenti della sua vita quando ricevette i sacramenti della Chiesa e poi si sedette in posizione meditativa per passare all’altra riva. Gli indù, invece, presteranno attenzione alle parole di Ramana Maharshi o di Gandhi che, in modo tipicamente indiano, parlavano di come la Dynowska "è stata loro da sempre", che l'India l'aveva chiamata a sé dall’eternità, cioè che lei innanzitutto era una indù. Tale rappresentazione logica di lei poggia sull'esclusività e funziona attraverso le negazioni: Wanda non è Umadevi, e Umadevi non è Wanda. Ma a dire il vero Dynowska non è soltanto Wanda che esclude Umadevi e viceversa, ma qualcuno che unisce Wanda e Umadevi. Dynowska è Umadewi e Wanda, Wanda e Umadevi sono Dynowska. La combinazione di questi due aspetti costituisce una delle caratteristiche della sua spiritualità. Questo è stato per lei possibile perché ha sperimentato ciò che nella tradizione orientale si chiama advaita, la non dualità, di cui ha scritto in una delle sue composizioni poetiche:
Dove sei?
A colui che mi ha mostrato la meravigliosa bellezza dello shivaismo del Kashmir -
Swami Lakshmandji, da Isabar, in Himalaya - dedico.
Misteriosa è la via, ignota e terribile;
dolce con i lampi del tuo sorriso -
ma che non sarà mai capita.
C'è un punto tra i due poli
Parama-Shiva e Para-Shakti -
La Visibile Manifesta e il Sempre Nascosto.
Attraverso questo punto Tu, o Amato, guardi,
Tu - la luce luminosa della mia anima,
il midollo del midollo, il respiro essenziale del mio essere.
Proprio lì aspetti e permani nell'eternità dell'immobilità,
In mezzo, sempre tra due.
C'è un punto misterioso tra il giorno e la notte -
Il preludio dell’alba e l’ultimo bagliore del tramonto;
I tuoi sono, o Shiva.
Nel ritmo regolare del respiro,
quando la benedizione soffia nel mondo
e di nuovo nelle profondità della "terra" ritorna a noi,
c’è un punto - sospeso in silenzio,
l’incontro di due archi, l’unione di due ritmi.
Ed eccoti qua.
E tra l'ultimo bagliore del pensiero, la sua ombra,
e un’altra luce – che la gente chiama sogno -
uno strano limite,
dove la vista dell'anima può stendersi in entrambe le direzioni,
c’è un punto - come l'occhio dell'infinito.
E in esso Tu sei.
Tra le leggi dell'obbedienza visibile,
l'orgoglioso desiderio di libertà dell'anima
e la triste – opposta a tutto - sfida
c’è il punto,
O Signore, so che là anche tu sei.
Perché le lacrime coprono gli occhi,
Anche se il cuore la dolcezza della Tua presenza,
sembra percepire vicina e tuttavia sfuggente;
Volatile e seducente; non so da che parte,
in me, o intorno a me, qui, là, da nessuna parte o ovunque.
L'anima deve attraversare questo punto da sola,
Come? Non lo so.
Ma so che niente tranne lei, nuda,
indifesa e sola, non può passarci.
Volontà e pensiero, rettitudine e fede,
amore e convinzione,
persino la sua stessa esistenza,
devono rimanere da questa parte.
Solo lacrime - una rugiada, un simbolo,
un ricordo - possono fluire lì,
come un'eco lontano della terra.
Questo si chiama sacrificio?
Non lo so.
Si chiama la tua distruzione
di volontà, di rettitudine, di felicità, di amore -
affinché l'anima possa trovare te solo
e in questo punto senza nome,
incomprensibile al pensiero,
può continuare a vivere?
Non lo so.
Non è che di questo incomprensibile sacrificio l’ombra
sia la mancata voglia di esistere;
stanchezza dalla fame unica,
ancora insoddisfatta?
O Signore, dove sei?
In questo punto? Invisibile, nascosto,
O velato dalle mie lacrime,
Tu, grande e silenzioso Yogi dell'universo,
dove sei?
(Maysor, Montagna della Dea Cymundi, dicembre 1936; tutte le traduzioni sono di M. Bielawski)
Dynowska ha sperimentato e ha realizzato in sé questo punto, che trova la sua conferma anche nei suoi due nomi: Wanda e Umadevi. In un profilo spirituale, i nomi non sono etichette esterne, ma toccano le profondità e l'essenza della persona ritratta. Direi ancora di più, è proprio la distanza tra Wanda e Umadevi a evidenziare questa profondità. Wanda, come molti nomi, è un nome polisemico, cioè non riducibile a una sola radice. Essa deriva dall’antica parola slava "węda", che significa canna da pesca. Ecco come doveva essere la leggendaria principessa Wanda, figlia del re Krakus, il cui bellissimo aspetto catturava il cuore dei cavalieri dell’epoca (come un amo da pesca). Wanda deriva anche dal lituano "vadene" che significa apparizione (rusałka) e dal "vadno" che significa acqua. In germanico, "Wenedka" significa una donna soraba o slava. Riassumendo questi tre significati, possiamo dire che Wanda è una bella apparizione femminile slava comparsa accanto alle acque. È curioso notare che nello stesso periodo in cui Wincenty Kadlubek (1150-1223), un medievale cronista polacco, creava il nome Wanda nella lingua polacca e ne raccontava la leggenda, a Maysor viveva Umadevi (1150-1218), che era una delle mogli del re Veer Ballab II. Nella cultura indiana Umadevi prima di tutto indica la dea Paravati, la compagna di Shiva. In sanscrito “Uma” significa splendore e luce, ma anche pace e serenità. "Devi" può significare dea, madre o moglie di un dio, o semplicemente una donna bella. In una parola, Umadevi significa una dea bella e luminosa o semplicemente una donna bella e radiante. Infine aggiungerei che unendo le lettere del suo cognome e i diminutivi di Wanda, come Dula, Dusia, Dziunia, almeno dal punto di vista fonetico vi è solo un passo dal nome Umadevi, ma questo è ovviamente solo un gioco o una coincidenza a cui non occorre dare molta attenzione.
Wanda-Umadevi appartiene a quelle figure, non così…. nella storia, che uniscono in sé due o più culture e così si elevano al livello di simboli per l'umanità. Dynowska non era schizofrenica. Non era mezza polacca e mezza indiana, ma grazie alla profondità della sua esperienza esistenziale, alla sua ricerca e al suo coraggio, era al 100% entrambe le cose. Le sue poesie che possiedono un sapore mistico sono state scritte in polacco, ma tinte di induismo e appartengono ad entrambe le culture. Questo aspetto spirituale e dialogico di Dynowska ha trovato la sua espressione nella sua attività letteraria concretizzatasi nella “Biblioteca polacco-indiana”, una numerosa serie di pubblicazioni che includevano le traduzioni dei classici di entrambe le culture, accompagnate da studi e testi più recenti. Ha detto che facendolo voleva: "Mostrare l'anima della Polonia all'India, anche se solo a un piccolo gruppo di persone interiormente risvegliate e di mentalità aperta... Mostrare l'anima dell'India ai polacchi, anche se solo a pochi, che possiedono ampie vedute e sono privi di pregiudizi razziali e religiosi, che amano l'uomo indipendentemente dalla parte del mondo in cui abita, che rispettano e apprezzano il pensiero umano creativo, a prescindere dalle forme e dai simboli in cui si esprime - questo è uno dei principali obiettivi dei miei molti anni in India”. La dialogicità mi sembra essere una delle qualità più importanti e notevoli di questa figura. È il risultato e il frutto della sua spiritualità.
Incanto e disincanto
Secondo la tradizione occidentale, il percorso filosofico, nel senso di cercare la pienezza di vita, la realizzazione e la felicità, inizia con l’incanto (thaumàzein). Platone nel Teeteto (11,155d) dice che un filosofo deve essere suscettibile a questo tipo di esperienza ed è questo che fa di una persona un filosofo. Aristotele ritiene che è attraverso l'estasi che gli uomini cominciano a filosofare (Met. 1,2,982b.12). È l’estasi che stende davanti all'uomo l'orizzonte del mito, attraverso il quale il mondo diventa casa e la vita è vista come un viaggio.
Invece secondo la tradizione orientale tutto inizia con il disincanto, il cui secondo nome è disperazione. Il principe Arjuna è sconvolto dalla situazione in cui si trova, ed è questa situazione che lo spinge al dialogo con Krishna. Buddha scopre che tutto è sofferenza (dukkha), illusione, instabilità, che il mondo è in fiamme: la nascita è dukkha, la malattia è dukkha, l'invecchiamento è dukkha, la morte è dukkha; la disperazione, il lamento, il dolore e la tensione sono dukkha; l'associazione con l'indesiderato è dukkha; la separazione dal desiderato è dukkha; il fallimento nel raggiungere il desiderato è dukkha. Dal disincanto totale nasce la nobile disciplina della rinuncia.
Nel caso di Dynowska, questi due aspetti, incanto e disincanto, luce e oscurità, si intrecciano per creare una delle caratteristiche principali della sua spiritualità. A mio parere, sarebbe fuorviante ed errato cercare un unico fondamento (arché) che muova la Dynowska in senso cronologico, cioè rintracciare il momento da cui è scaturito tutto nella sua vita. Sono incline a parlare piuttosto di due tendenze permanenti, che si intrecciano nell’arco della sua esistenza.
Era incantata dalla bellezza della natura ovunque andasse, dall'armonia della vita nella sua casa di famiglia e negli ashram, dalla bellezza della saggezza delle opere letterarie che si dedicò a leggere per tutta la vita, dai volti delle persone a lei affini, che rintracciava ovunque, dall'amore, dal desiderio di fare del bene, di essere utile e buona. C’era in lei una forza motrice carica di armonia, pienezza, bontà. Una volta, trovandosi sulle montagne di Tatra, espresse la sua ammirazione nel modo seguente: “L'anima non può comprendere l'immensità o la scala della bellezza inconcepibile. Ricchezza, splendore, eccesso - semplicità della bellezza. Infinitamente grande e infinitamente piccolo - due estremi. Giganti della montagna di fronte; e qui, ai piedi - ogni foglia, filo d’erba e muschio, ogni linea di pietra, ogni colore di ramoscello... senza fine, senza fine. Non si può girare lo sguardo da nessuna parte senza incontrare un miracolo. Due estremità... E ogni mezzatinta, ogni sfumatura, ogni gradino tra loro, è perfetto, finito, sorprendente e.... Bellezza terrificante”. (Settembre in Morskie Oko).
D'altra parte, Dynowska perde e abbandona: la sua casa, un uomo amato, un leader ammirato (Piłsudski), la sua patria, l'armonia così promettente della società teosofica dopo l’allontanamento di Krishnamurti. Vuole darsi alla contemplazione ma viene ostacolata da polacchi giunti in India dalla Siberia, da tibetani anch’essi rifugiati in India ed infine, senza più forze, muore.
Awicz
O Signore, la vita è fuggita e non vuole tornare.
E non so dove sia la strada,
E perché andare verso qualcosa.
E perché l'esistenza stessa.
Morto, sterile tutto
Come un terreno incolto e cinereo.
Il cuore ha smesso di battere.
Il pensiero si è inaridito.
L'anima si è fermata,
come un orologio stanco.
Ieri... soffiava un vento possente
e si svolse un grande dramma,
scritto nel sangue vivo.
Ieri tutto bruciava e scintillava,
saltando fuori dalle forme con un gioco di luci e colori;
concentrato, guardando in uno di essi,
che pulsa con il respiro interiore,
ieri - un grande Mistero
nella vita che stava diventando.
Oggi...? Non la vita, ma la freddezza della scena circostante,
tutti sbiaditi e morti.
Sbiadito, vuoto, incolore,
spogliato di fascino. Blando.
La vita se n'è andata e non vuole tornare;
E il cuore ha smesso di battere...
La fede può essere evocata a comando?
Le mani possono essere ritirate dall'officina,
quando l'anima corre dietro alla navetta.
Non è forse un'illusione, un indegno autoinganno?
Un muro nero davanti a me,
E piombo nel mio sangue.
Il pensiero è lanciato. E si libra con una domanda.
E urla. E cade con una domanda.
Il pensiero si agita, colpisce l'inconcepibile
E sta fermo.
L'anima si è fermata, come un orologio stanco,
E il cuore ha smesso di battere.
Oscurità ovunque.
O Signore, perché e verso cosa stiamo andando?
(Maanwadi, Verde, Dicembre 1936)
Umadevi ha vissuto la sua vita tra l'estasi e la disperazione, tra la pienezza e il vuoto, tra l'appagamento e l’insoddisfazione, tra la pace e l’amarezza. Queste due caratteristiche, come due venti, soffiavano costantemente sul suo viso, influenzando il suo profilo spirituale. Ha ceduto ad entrambi questi venti e ha condotto la barca della sua vita sotto l'influenza dell'uno o dell'altro. Andava avanti quando i venti erano favorevoli, ma non si arrendeva quando i venti erano contrari.
Risveglio
Ad un certo punto, Dynowska sperimentò un risveglio spirituale. Non è chiaro quando e perché. La risposta a tali domande generalmente dipende dal contesto in cui vengono poste. Il cristianesimo parla di vocazione, il buddismo di risveglio della mente (bodhi-citta-utpada). Il primo parla di grazia, il secondo sottolinea l'intreccio karmico. Comunque sia, in base ai fatti della vita di Dynowska, possiamo dire che in un momento preciso qualcosa l’abbia toccata, qualcosa le è stato dato, qualcosa l’ha spinta verso il cammino spirituale. Gli incontri con i teosofi? Letture di libri su argomenti spirituali? Erano in definitiva esperienze incomprensibili e inconcepibili al cui influsso era impossibile sottrarsi? Non sappiamo. Non c'è una causa unica per questo tipo di esperienze che, in fin dei conti, non si prestano ad analisi filosofiche, teologiche o psicologiche. Tuttavia, è importante che qualcosa sia nato in lei, che Dynowska abbia lasciato che questo qualcosa si sviluppasse nella sua vita e che la guidasse. Non sappiamo se questo tipo di esperienza sia rara e riservata a pochi eletti, o universale e data a tutti. Il Buddha dice che incontrare il dharma e sottomettersi ad esso è come il trovare, per una tartaruga, un giogo di legno nel mezzo della vastitudine di un oceano. Cristo dice che molti sono chiamati, ma pochi scelti. In ogni caso, si tratta di una certa unicità e dell'emergere di un grande spirito (mahatma). Senza dubbio, nel caso di Dynowska abbiamo a che fare proprio con tale evento che, dato in segreto, si rivela all'esterno, si cristallizza e cresce nel tempo facendosi ogni tanto persino percepire dagli osservatori esterni.
Il risveglio spirituale porta a una pratica di vita sempre più profonda e ampia, attraverso la quale lo spirito si irrobustisce e impregna la vita della persona. Nel cristianesimo abbiamo il bel concetto di epektasis, o corsa in avanti, segnalato da Paolo di Tarso (Fil 3,13) e sviluppato da Gregorio di Nissa. Si tratta di una specifica tensione e fascinazione per l'infinito, che libera un’energia interiore e provoca un tendere verso tale infinito con sempre maggiore intensità. Una sorta di liberazione e libertà.
È sorprendente come Umadevi si protendesse in avanti, come disinibita, come osasse entrare nel nuovo e nell’ignoto quasi deliziata da una tale incomprensibilità. Si è mossa dalla casa di famiglia alla Società teosofica, da Krishnamurti a Raman Maharshi e Gandhi, e poi a Lakshman Joo e al Dalai Lama tibetano, senza abbandonare la calma meditativa. Stabiliva il tempo per la contemplazione, senza perdere di vista i bisognosi che comparivano sulla sua strada come i polacchi dalla Siberia o i tibetani espulsi dalla loro patria a causa dell’invasione cinese.
Questa donna possedeva una sorta di bussola spirituale che la conduceva alle grandi spiritualità del suo tempo mentre, contemporaneamente, con la sua radiosità era in grado di toccare varie persone incontrate nel lungo cammino della vita. Sarebbe stato impossibile, o almeno inspiegabile, senza un risveglio spirituale vero e proprio.
Messianismo
Il messianismo è una credenza o convinzione che una certa situazione possa essere modificata con l’intervento di qualche mezzo. Per “situazione” si può intendere la condizione in cui si trova una singola persona, un gruppo di persone o il mondo intero. “Cambiamento” implica che una data situazione è imperfetta ma anche suscettibile di trasformazione, il che può significare essere allontanati da qualche luogo opprimente come la schiavitù, ma anche da una situazione migliore in termini di salute, benessere, libertà o conoscenza. “Mediazione” invece indica un agente, che può essere “qualcuno” (una persona, un gruppo di persone come nazione, Dio) o “qualcosa” (energia, grazia, scienza, ecc.). Un tale “qualcuno” di solito è visto come dotato di qualcosa di unico, che il contesto imperfetto non possiede, ma che tuttavia può essergli in qualche modo dato, comunicato, svelato, e che il contesto imperfetto è in grado di assorbire fino ad esserne migliorato. Entrare in relazione con un tale agente speciale, che può essere chiamato anche messia (unto, cioè assegnato e consacrato), può significare sottomettersi a lui e adorarlo ma anche mettersi al suo servizio e diventare una sua estensione tramandando il suo potere agli altri.
Sono convinto che Wanda Dynowska Umadevi abbia vissuto nel mito del messianismo. Quello che ho chiamato “disincanto” potrebbe indicare varie esperienze e situazioni della sua vita, intrise della consapevolezza dell’imperfezione e della sofferenza. Tra questi: i fallimenti personali, la situazione della nazione polacca o dei popoli dell'India, la situazione generale dell'umanità che vive nel buio dell'ignoranza e soffre per le guerre. Quello che ho chiamato “incanto” sarebbe stata la convinzione dell’esistenza di una genialità, un insegnamento o una persona in grado di cambiare lo stato di delusione e dolore. Da qui la devozione di Dynowska all’idea della nazione polacca o indiana e alle figure dei vari maestri spirituali. Così le sue convinzioni che certe idee provenienti dalla Polonia avrebbero potuto migliorare l’India e che gli insegnamenti dei maestri dell’India avrebbero potuto contribuire al miglioramento della vita in Polonia sono parte della sua spiritualità messianica.
La metafora spirituale del messianismo suppone la convinzione che l’ardore e l'ansia che consumano l’essere umano dall’interno sono anche il principale carburante per le sue attività. Umadevi, avendo sperimentato una volta questo ardore in sé, lo alimentava col desiderio di diffonderlo agli altri. C’era in lei questa “santa inquietudine”, che durante tutta la vita la spinse a varie attività come imparare, cercare maestri e studiare i loro insegnamenti, coltivare la disciplina interiore e la conoscenza contemplativa, tradurre testi, viaggiare, tenere conferenze e organizzare varie strategie di aiuto concreto per le persone afflitte incontrate nella sua vita. La sua straordinaria abnegazione non era altro che un’attività strettamente legata alla sua convinzione messianica.
Non so se Umadevi abbia conosciuto il ciclo buddhista dei dieci disegni che presentano “La ricerca del toro”, ma credo che alla sera della sua esistenza avrebbe potuto riconoscersi nel commento all’ottavo disegno che dice: “Un tempo volevo salvare il mondo intero. Ma ecco una sorpresa straordinaria! Non c'è nessun mondo da salvare. Le parole non possono esprimere questo (nuovo) stato. Maestri-discepoli: non c'è più niente. Enigma. Chi potrebbe accettare una tale verità? Chi sarebbe in grado di trasmetterlo?”. In ogni caso mi piace pensare che il suo cammino sia giunto, ad un determinato momento, a tale traguardo liberandola persino dal suo messianismo. Tale pensiero mi è suggerito da questo suo poema a cui lei stessa nel momento della pubblicazione ha aggiunto un commento:
Ignoto
La soglia è scomparsa e tutti i contorni sono sfocati.
Cosa so della terra dove sono, o che sono io?
Il pensiero si ferma e io stessa non riesco a sentirne il suono;
Né posso percepire le onde dei sentimenti.
Intorno a me vedo diverse forme, ma anche non le vedo.
Parole che sento da qualche parte in lontananza - eppure non sento.
Il “fuori” non esiste, il “dentro” ha cessato di essere;
Le linee, le divisioni e le forme spaziali si confondono:
“qui-là”, “io-non-io”.
Questo non è né esistenza né non-esistenza.
Questa è la pienezza dell’immobilità o pienezza del silenzio?
Sentimento e pensiero, aspirazione e scopo - cosa significano?
Non lo so. Non riesco a pensare.
Chi sei tu, Signore, e chi sono io?
Non è una corsa o un movimento,
non è l’estasi della felicità
e nessun diluvio gioioso,
nemmeno il miracolo dell’espansione del cuore,
né la scomparsa di qualsiasi “punto” in esso,
né l’infinità del respiro nell’immensità dello spazio.
Cosa sei tu, Signore, e chi sono io?
In quale terra mi hai abbandonato,
Che non è un luogo ma la Realtà.
Non uno stato di sentimenti, né un’immagine di pensieri,
ma la Vita stessa.
Nemmeno un mistero,
ma la più grande semplicità nella pace,
senza attributi, nomi, né forma del contorno,
la pura esistenza.
Mi hai chiamato e sono venuta.
E oggi “io” - è un suono vuoto.
Come adorarti, come portare l’amore in sacrificio,
quando la tua vita non ha limiti -
Dov'è il suo centro e dov'è la sua circonferenza?
e non so dove sono io,
come se fosse una goccia nell'immensità.
So che Tu sei la verità dell'esistenza,
che in te resterò in eterno.
Tutumwannamalai, Ashram, febbraio 1936.
Commento di Umadevi:
In questi versi la paura dell’ignoto scompare e qui si esprime un’esperienza interiore mistica quando la coscienza si eleva al di sopra dei pensieri e dei sentimenti in un nuovo stato, una nuova dimensione o un nuovo stadio dello yoga. Nel tentativo di esprimerlo, i mistici di tutti i tempi hanno usato paradossi, paragoni insoliti e apparentemente insensati. Questo è forse simile al fenomeno che vediamo nella pittura moderna, dove il tentativo di trasmettere movimento e dimensioni superiori in uno spazio bidimensionale, viene rappresentato da scorciatoie apparentemente insensate, linee, piani, ecc.
Mistica
L’affermazione che Dynowska fosse una mistica è una tautologia, perché ogni essere umano è un mistico, e il misticismo non è un sovrappiù eccentrico ma un elemento costitutivo dell’essere umano. Il primo segno del misticismo è l’esperienza e la convinzione dell’unificazione di tutte le cose, il secondo è la consapevolezza della conoscenza al di là della comprensione razionale.
Nell’esperienza mistica è essenziale sentire l’unità del tutto e sapere che anche l’uomo è unito a questa totalità. L’unità appare in modi diversi. Per alcuni, essa riguarda il mondo materiale in tutta la sua complessità, per altri indica l’unione con Dio. Tutto questo dipende da ineffabili convinzioni meta-mistiche che presuppongono una certa visione del mondo, una certa antropologia e una teologia. La mistica può essere senza Dio e persino comportare una negazione cosciente di Dio in nome dell’esperienza e della conservazione dell’unità. La mistica teista è solo una delle possibili mistiche. In Dynowska, l’esperienza dell’unità mistica era teistica.
L’esperienza dell’unità e dell’unione è intrinsecamente accompagnata da una certa cognizione e dal desiderio di comunicarla agli altri. L’uomo semplicemente non può non pensare e parlare. Il mistico, però, paradossalmente si rende conto che la sua esperienza va oltre la possibilità di cognizione e di espressione. In altre parole, sperimenta i limiti della razionalità e del linguaggio. Per questo nella mistica si parla di visione, estasi, paradosso, liberazione dalla mente e silenzio. Questo non significa che il misticismo sia irrazionale, ma evidenzia chiaramente il fatto dell’irriducibilità della realtà e della cognizione all’aspetto razionale. Per il mistico, la razionalità è solo un elemento della realtà a cui non si deve ridurre il tutto. Da qui le dispute dottrinali sulla mistica e il sospetto dei dogmatici verso i mistici. Più importante, però, è lo sforzo del mistico di esprimere l’ineffabile. Il mistico, convinto dell’unità di tutte le cose, non può tacere e lo comunica, perché la comunicazione dell’ineffabile fa parte integrante dell’unità che sperimenta. Il mistico è convinto che l’unica cosa che valga la pena fare è esprimere e comunicare l’inesprimibile. Ecco perché i mistici scrivono, come ha fatto Umadevi.
Non ha inserito il suo misticismo in un sistema filosofico, non si è impegnata in uno sforzo cosciente e sistematico per elaborarlo. Non era un tipo di mistica intellettuale o la fondatrice di una scuola di spiritualità. I suoi scritti sono occasionali, ma tuttavia scrivere e pubblicare vari testi era importante per lei, era parte integrante della sua spiritualità. I suoi scritti sono una collezione preziosa e unica nel regno del misticismo polacco e mondiale. Ecco alcune delle loro caratteristiche.
Nel caso di Dynowska non si tratta di poesia o di prosa a sfondo mistico, ma di testi sensu stricto mistici, che fanno uso di varie convenzioni poetiche. Forse in termini di canoni letterari odierni, anche se relativi, non sono opere di altissimo livello, ma il loro potere e valore non risiede nella sfera estetica, ma nel loro essere impregnati di esperienza spirituale. In altre parole, qui la mistica non è al servizio della letteratura bensì il contrario.
Tuttavia, è anche letteratura, e la letteratura funziona sempre nel contesto di una convenzione predefinita. Per Umadevi questa era costituita dalla lingua polacca e dal suo stile poetico secondo i caratteri assunti tra il XIX e il XX secolo. La sua formazione era avvenuta attraverso tali codici letterari tanto da diventare un naturale strumento per esprimere le sue esperienze spirituali. Questo fatto ha avuto alcune conseguenze, una delle quali è il fatto che i testi di Dynowska possono sembrare a prima vista arcaici e anacronistici, poiché il nostro gusto e lo stile letterario sono nel frattempo cambiati. Lei stessa, dopo l’incontro con la letteratura indiana e aver preso le distanze dal proprio timbro letterario, se ne rese conto sebbene non sia stata in grado di cambiare le cose. Basta però riconoscere tale limite per superarlo e apprezzare i suoi testi.
Vale la pena di sottolineare un certo fatto biografico. Il testo “Settembre su Morskie Oko”, citato sopra, fu senza dubbio scritto in Polonia, ma fu pubblicato in India nel 1948. Fa parte della ricca letteratura che riguardava i Tatra su cui scrivevano molti poeti a partire da fine Ottocento. Il lago noto come Morskie Oko ha ispirato molti artisti e i viaggi verso di esso, lago di montagna, avevano il sapore di un pellegrinaggio. Anche lei ne fece uno in cui ebbe modo di sperimentare qualcosa di unico, che immediatamente annotò. Il processo stesso della scrittura faceva parte della sua esperienza mistica. Anche in India, Wanda portò con sé questo testo. La immagino in viaggio col suo taccuino. Ebbe però modo di pubblicarlo solo dopo più di dieci anni dalla sua creazione cioè solo quando l’esperienza ivi riportata era stata da lei completamente assorbita e mediata da una certa distanza spaziale e temporale.
Confrontando i suoi scritti mistici scritti in Polonia e quelli creati in India, si può dire che la loro convenzione letteraria sia la stessa, anche se i Tatra sono sostituiti dalle montagne indiane e il vocabolario si arricchisce di concetti derivati dal sanscrito. La differenza sta nel fatto che i testi polacchi della Dynowska sono soprattutto “cosmici”, cioè lei percepisce e vive il mistero della realtà soprattutto nel contesto della natura. Le opere indiane, invece, senza perdere questa sensibilità cosmica, si concentrano maggiormente sul divino. In India Umadevi ha scritto di più sulla sua esperienza di Dio. In Polonia, Dio e l’uomo apparivano nel contesto della natura; in India, la natura e l’uomo apparivano nel contesto di Dio.
Ciò che colpisce nei testi di Dynowska è la sua malinconia. In essi emerge probabilmente la sua “anima slava”. Una certa tristezza, che a volte assume la forma di un lamento, è percepibile in molte delle sue poesie. Sperimentando l’immensità dell’unità e dell’unione con il mondo e con Dio, cercando di accettare ed esprimere questa esperienza, Umadevi piange. Sono lacrime di pentimento, di dolore, di delizia e di gioia. Nella sua esperienza mistica è felice nell’infelicità e infelice nella felicità. Questa è anche una peculiarità del suo profilo spirituale. Fu sulle ali di una tale esperienza che si sviluppò in lei la compassione, che a sua volta si tradusse in atti concreti di aiuto alle persone afflitte dal destino.
La sua spiritualità è anche molto femminile. È prevalentemente emotiva piuttosto che intellettuale e speculativa. La ricettività e la compassione sono i suoi segni distintivi. Solo una donna avrebbe potuto scrivere un poema così magnifico come questo:
La preghiera di una madre di sannyasin
Vento, fai silenzio per un po',
per un Darhan a Shiva vai;
non vedi – il buio già cade,
la notte silenziosa arriva.
Guarda, lì tra le ombre e le rocce,
un punto bianco si sposta,
è un bimbo dell’uomo
gettato nel mondo sconfinato.
Non strappare le sue vesti lacere,
non fischiargli selvaggiamente di continuo;
attenua il tuo impeto e taci,
accarezza la sua tempia,
suonagli una lunga e silenziosa canzone,
raccontargli una favola serena,
siigli un buon messaggero
e un amico, per un attimo,
finché sulla porta di qualche rifugio
non poggerà la sua mano stanca.
Oh, Vayu, ferma i tuoi destrieri,
lascia che il timido sussurro del cuore di una madre
giunga alle tue orecchie.
Varuna, Signore dell’Ovest, ascolta,
e ascolta Vayu anche tu!
Oh pioggia, cara pioggia
non precipitarti sulla terra.
Aspetta, Vayu, aspetta un attimo;
guarda in alto, vedi gli occhi delle stelle?
vedi la falce dorata nel sorriso?
Guarda in alto,
fermati per un attimo sulla strada,
come le corde di un sitar...;
Non precipitarti sulla terra;
la notte scende, le ombre vagano...
e in alto è luminoso, vasto...
Lascia che il sussurro delle tue gocce,
prima conti la luna dorata
e a ciascuna presti un raggio,
e dopo, fra un attimo,
(quando il bimbo varchi la porta)
stenderai i tuoi fili luccicanti,
gettando dal cielo alla terra un ponte
illuminando la notte,
il tempietto circonderai con le corde d'oro
e con un nuovo ronzio suonerai un canto a Shiva.
O pioggia, aspetta un attimo,
ascolta il desiderio del cuore materno;
Oh strada, strada sabbiosa,
ripido sentiero tra le rocce,
come supplicarti, come,
puoi cambiare il tuo percorso?
Ma può chiamare
gli sciami dei piccoli amici
- e una piccola fraternità alata -
che spazzerà via gli aghi e le spine dei rami,
che rimuoverà i sassolini appuntiti
e una morbida ragnatela stenderà
sotto i nudi piedi dei mendicanti.
O strada, carissimo sentiero,
tanti piedi scalzi percorrono il tuo tratto,
così tante orme segnano la tua sabbia -
Ma riconoscerai il passo di questo mio bimbo?
Come supplicarti, come?
Come sei saggia,
da secoli conosci ogni passo:
questo stanco – di vecchi contadini -
quello minuto - di donne spossate dai pesi;
lento e gentile - di buoi bianchi,
lunghi e calmi - di grandi elefanti.
Oh, li conosci tutti!
Ogni tocco individui
della sua specifica vibrazione,
Così, quando improvvisamente sentirai un tocco luminoso,
come se scendesse direttamente dal cielo,
di un piccolo e leggero piede -
come se fosse a te apparentato,
come se provenisse dal grembo tuo -
fiduciosamente abbraccialo con la tua sabbia,
rispondigli con un tocco materno,
avvolgilo, abbraccialo, cullalo come una brezza;
nutrilo col proprio respiro.
Perché è il figlio di Shiva che cammina
e a te porta il suo messaggio -
il dono di grande amore.
O strada, strada carissima,
rispondi con un dolce discorso,
benedici i piedi nudi del bimbo,
sii la sua madre - al posto mio.
Bangalore, luglio 1937.
Commento di Umadevi:
Sannyasin, rinunciando alla famiglia, alla casa, vagando da un luogo all’altro, di solito non si ferma da nessuna parte per più di tre giorni, dorme all’aperto o in tempietti lungo la strada e capannoni, il che è estremamente difficile e pericoloso nel periodo di violenti venti e piogge monsoniche. “Gettato nel mondo sconfinato”, interiormente, perché non aderisce a nessuna forma religiosa, né rituale, ecc., cerca Dio da solo; ed esteriormente, perché nulla lo protegge, “non ha dove posare il capo”, a volte vaga affamato, e a volte, come per miracolo, trova frutta, latte, acqua preparati sulla soglia dei templi lungo la strada. Sono stata testimone di molti fatti del genere.
Maciej Bielawski (2014)