Ogni
momento è eterno
Caro Maciej, sono Roberto Capelli di Bergamo. Ci siamo conosciuti alla conferenza nazionale di meditazione cristiana in provincia di Padova, l’8, il 9 e il 10 aprile. Ti avevo chiesto l’indirizzo email, perché volevo chiederti un’intervista per il giornalino della nostra Comunità, su Raimon Panikkar, per poter estendere anche agli amici della mia Comunità le cose importanti che hai detto. Io mi ero scritto degli appunti, che sicuramente sono parziali anche perché quello che dicevi non riuscivo a registrarlo tutto; ma vorrei chiederti di approfondirli. Tu hai detto: “ i suoi libri sono labirinti da attraversare per essere trasformati”. Potresti dirci qualche parola di più?
MB: Inizierei distinguendo tra i testi che ci forniscono le informazioni e i testi che possono trasformarci. A questa distinzione si associa anche un’altra che riguarda il modo di leggere: si può leggere principalmente per informarsi e si può leggere per trasformarci. Ovviamente in concreto le distinzioni non sono cosi nette, ma penso, che va bene averle presente soprattutto quando si pensa dell’opera di Panikkar che ha scritto molto e i suoi testi sono affascinanti, ma anche difficili, seducenti, ma impegnativi. Sono, proprio, come un labirinto: uno entra e gira, gira, pensa che si è perso e forse anche ha l’impressione che leggendoli ha perso il tempo. Invece un giorno si rende conto che l’avventura della lettura di questi testi ha cambiato il suo modo di percepire la realtà. Questo “qualcosa” che trasforma, che è presente nei suoi scritti, non si trova esclusivamente nella loro dimensione informativa, perciò non può essere colto in un riassunto, in una spiegazione. Questo “qualcosa” giace tra le parole, in qualcosa che pre-testuale o oltre-testuale, che lentamente impregna la mente e il cuore del lettore. È superfluo aggiungere che queste osservazioni non riguardano solo l’opera di Panikkar, ma certamente si applicano perfettamente ai suoi scritti.
RC: Hai detto anche che la nostra identità è un misto di esclusività ed apertura. Esclusivisti quando escludiamo chi la pensa diversamente da noi. Inclusivisti quando facciamo entrare ma spesso solo allo scopo di “convincere al nostro pensiero gli altri. Viviamo anche una dimensione di “parallelismo” quando pare che accettiamo gli altri, tutte le altre religioni. Il grande rischio è che lo viviamo come indifferenza verso il pensiero, il credo dell’altro: tu fai la tua strada, io la mia. Una specie di “diplomazia di buone maniere”, l’hai chiamata. Raimon propone un ponte diverso: dialogo di interpenetrazione o fecondazione reciproca. Ci puoi dire qualche parola su questa sua visione?
MB: In Panikkar, come nella vita di ogni persona, le relazioni o i dialoghi sono molteplici. Ognuno di noi è un po’ esclusivista e un po’ inclusivista, si avvicina agli altri e si allontana. L’arte della vita sta, direi, nel saper armonizzare tutte queste tendenze. Invece la fecondazione reciproca, che non succede sempre e a tutti, è un legame dinamico in cui in una persona (o in una comunità) si incontrano due tendenze religiose. Non è un sincretismo, ma in tale incontro ambedue le parti si arricchiscono. Basta pensare come fecondo fu l’incontro del cristianesimo originariamente di stampo semitico con l’ellenismo – il Nuovo Testamento è stato scritto in greco, la maggior parte dei dogmi cristiani è stata espressa anche in greco. Ora però mi domando in che misura il cristianesimo è stato fecondo per l’ellenismo. Forse è una riflessione che bisognerebbe sviluppare.
RC: Ci hai poi parlato di un altro ponte, fra i tanti: il ponte del dialogo interreligioso, che per Raimon è piuttosto “intra-religioso”. Hai parlato di due corsie sul ponte: interreligioso è qualcosa di esterno, un capire, un dialogare a livello intellettuale; per l’altro dialogo hai fatto l’esempio di una frase di Paul Knitter: “Senza Budda non potrei essere cristiano”. Ci puoi dire qualcosa di più?
MB: Per Panikkar esiste un dialogo inter-religioso, ma lui, sottolineando un aspetto interiore, parla anche del dialogo intra-religioso. L’aspetto interiore, personale, profondo, che rende il dialogo fecondo, autentico, bello. Esso non esclude, ma completa, tutta la parte “esteriore”, che si potrebbe chiamare anche “la cultura del dialogo”. Il dialogo interreligioso e il dialogo intra-religioso sono complementari. Parlando del dialogo intra-religioso si sottolinea una vera e propria avventura, un rischio che è iscritto nell’aprirsi all’altro, è iscritto nella vita. Un ottimo esempio di come questo avviene può essere il bel libro di Paul Knitter, Senza Buddha non potrei cristiano, appena pubblicato in Italia da Fazi Editore nella collana Campo dei Fiori.
RC: Hai parlato anche, tra le tante cose, di Ecologia, e di Raimon che propone invece un’Ecosofia. Hai detto che l’ecologia, secondo Raimon, non basta più. L’ecologia è sempre un “colonialismo del logos” sulla terra. Va bene, si, magari si facesse questo. Ma non basta. Puoi aiutarci a capire meglio la differenza?
MB: L’ecologia è ancora un atteggiamento di conquista, di colonialismo, di sfruttamento. In un certo momento gli uomini si rendono conto che sfruttando la terra esagerano, dunque incominciano a calcolare (ecco l’uso del “logos”) come sfruttare la terra in un modo più prudente, più a lungo – ed ecco l’ecologia. Ma in questo atteggiamento è sempre l’uomo che comanda, che calcola, che pensa che solo lui è saggio (possiede la “sofia”). Facendo così non si rende conto che anche la terra ha la sua saggezza (“sofia”) che forse l’uomo potrebbe ascoltare. Forse l’uomo e la terra potrebbero imparare l’uno dall’altro. Ovviamente un industriale dirà subito: ma è folle! La terra, gli animali non hanno nessuna “sofia”. E invece le tradizioni dicono: ascolta la terra, guardo il fiume, lasciati attraversare dal vento, bacia la pietra, abbraccia un albero, lascia che il tuo cane ti porta a spasso (non vice versa), guardate i gigli, osservate gli uccelli. Ecco l’esosofia, che si potrebbe anche chiamare dialogo con la terra, con il cosmo, con il mondo.
RC: Hai detto anche che l’esperienza spirituale, l’esperienza mistica, negli ultimi 50 anni è diventata importantissima. Perché, secondo te?
MB: Se mi ricordo bene parlavo di una altra cosa. Cercavo di spiegare che ancora cinquant’anni fa la parole “esperienza” era bandita dal mondo cristiano, era vista da parte della “dottrina officiale” con il sospetto. Importante era ciò che era oggettivamente rivelato e insegnato dall’autorità gerarchica. Invece oggi il peso e l’attenzione si è spostato sull’esperienza. È un cambiamento notevole, è una rivoluzione. Le dottrine, gli insegnamenti delle gerarchie, le parole sacre, se non sono vissute, se non sono legate con la vita, se non si basano sull’esperienza e se non rimandano all’esperienza non hanno per noi valore. Forse da qui proviene l’importanza della ricerca dell’esperienza che chiamiamo (di nuovo a causa della mancanza di un'altra parole) “spirituale”. Penso alla meditazione: è una esperienza, è qualcosa che si vive, non qualcosa di cui si parla. La meditazione teoretica non esiste, un teoria sulla meditazione, anche la più bella, non è una meditazione. Vero?
RC: Tu dici che tutta l’opera di Raimon è un’esperienza, una visione, un’intuizione. E dici anche che Raimon è un mistico che parla della mistica, a differenza di uno studioso che parla della mistica, ma risulta “esterno” all’esperienza. Se leggiamo o ascoltiamo le parole di un mistico, ne captiamo il silenzio, non una dottrina, non un insegnamento…Ci puoi aiutare a capire meglio?
MB: E’ un mio modo di capire, di vedere e di interpretare Panikkar. Stando di fronte alla mole immensa dei suoi scritti, che nell’insieme sono piuttosto complicati, mi sono chiesto: Ma perché questo uomo ha scritto tutto questo e nel fondo che cosa voleva dire? Penso che in Panikkar lentamente si è creta un visione della realtà, una intuizione. Si potrebbe dire che lui aveva una esperienza (mistica), ma non in senso “classico”, cioè come “un fulmine”. Nel suo caso abbiamo piuttosto a che fare con un costante ed esteso emergere nel tempo di questa visione. Il suo scrivere, per tutta la vita è stato il modo di capire meglio questa sua intuizione, di approfondirla, per comunicarla agli altri. E proprio questa intuizione mistica, silenziosa, inesprimibile giace, come un fondamento, alla base di tutti i suoi testi. E leggendo i suoi libri, attraversando i suoi ragionamenti, perdendosi nell’immensità delle argomentazioni, prima o poi incominciamo a toccare questo fondamento inesprimibile che lui ha sperimentato e questa intuizione incomincia far parte di noi: vediamo il mondo in un modo diverso, viviamo diversamente, siamo trasformati. Non è una magia, come se il suo testo funzionasse come una mantra magica, no, ma l’esperienza mistica può essere comunicata – anche attraverso il testo scritto. Tutto questo vale anche per il discorso che Panikkar fa – in alcuni suoi scritti – sulla mistica. È una cosa curiosa. Lui parla della mistica, e sembra a prima vista di farlo come tutti i “misticologi”, cioè studiosi, accademici, ma nel fondo è un mistico che parla sulla mistica. Questo è una cosa rara, perché i mistici non parlano quasi mai della mistica – parlano sulla base della loro esperienza (mistica) generalmente senza parlare della mistica stessa. Panikkar invece (come mistico) parla anche della mistica, ma lo fa nascondendo il suo misticismo personale. Bisogna ricordare che a proposito del sue afflato mistico (di cui era consapevole) era molto discreto e si capisce perché: non voleva sentire la critica, che tutte le sue “teorie” sono “fantasie di un mistico” (nel senso negativo della parola). Ma come ho detto questo è la mia intuizione che ho a proposito di Panikkar e qualcuno potrebbe pensare, o proprio pensa, diversamente.
RC: Hai anche detto che la parola è simbolo, quando c’è stato un rapporto, un’esperienza tra noi e la cosa, fosse anche una pietra. Tutto ci parla, tutto è rivelazione. Hai accennato al simbolo dell’ultima cena, dell’Eucaristia. Potresti aiutarci a capire per poter vivere quel momento in modo più profondo?
MB: Il problema sta proprio nel fatto che voler troppo capire, di spiegare “tutto”, di parlare molto di simbolo distrugge il simbolo. Che cosa ha praticamente “ucciso” le celebrazioni eucaristiche della cristianità moderna? I discorsi dei celebranti che volevano (vogliono) spiegare tutto e praticamente non “fanno” il rito, ma ne parlano, come se avessero paura del vuoto, della povertà, ma anche della forza, di un gesto in cui si condivide (in memoria) il pane e il vino. Penso che proprio qui trova, una delle su spiegazioni, l’interesse della prassi meditativa da parte di tanti uomini e donne. Nella meditazione riusciamo a distanziarsi dai concetti, dalle teorie, dalle parole, perciò queste riprendono la loro forza incredibile. Ho impressione che ogni persona meditativa (ma questo ovviamente non significa solo star seduti e seguire qualche tecnica) conosce questa bella esperienza che dopo un tempo di una meditazione il legame tra la parola (per esempio “pietra”) e la pietra stessa che vediamo di fronte a noi, è più profondo. La parola “pietra” riceve un nuovo, più profondo, significato. La pietra stessa manda, direi, le onde della sua vitalità, veicolando sul suono della parola “pietra” e attraverso i nostri sensi entra nel nostro cuore, nella nostra menta e in questo momento noi impariamo qualcosa di nuovo (inaudito) su noi stessi e sulla realtà invisibile, inesprimibile, che avvolge tutto. Diciamo: le pietre mi parlano. Ecco come funziona “esperienza simbolica”. Ovviamente la pietra è solo un esempio che si potrebbe sostituire con altre parole-realtà come: l’altro, dio, cosmo… ecc.
Una domanda su un tema che mi pare non hai affrontato tu personalmente, ma che mi pare importante, fra le tante cose importanti: l’intuizione cosmoteandrica di Raimon. Puoi spiegarcela un poco?
La parola (Panikkar scherzava dicendo ogni tanto “la sua parolaccia”) cosmoteandrismo è stata creata da lui stesso e come un prisma riassume tutto il suo pensiero, e tutta la sua opera è come un arco baleno che è passato attraverso questo prisma. Questa parola è composta da tre parole: cosmos – theos – andreios; cioe: cosmo-dio-uomo. Già in questa parola è nascosto e rivelato tutto il mistero – sono tre le parole o è solo una parola? La parola rivela e nasconde. Cosmoteandrismo è il simbolo della realtà. È qualcosa di sperimentato e vissuto, qualcosa di inesprimibile, che nonostante ciò Panikkar per decenni si sforza di spiegare. Semplicemente cosmoteandrismo vuol dire che la realtà “è fatta” (vedi come deboli sono le nostre parole) da tre “componenti”: cosmo/materia – uomo/consapevolezza – dio/spirito. Questi tre elementi sono distinguibili, ma inseparabili; esistono insieme in un modo armonioso, non in qualche forma di subordinazione. Questo sembra ovvio e facile, ma le conseguenze di tale proposta sono sorprendenti: non esiste un dio senza cosmo e uomo, anche l’uomo non è pensabile senza un dio e senza il cosmo, e il cosmo è legato con l’uomo e divinizzato. Con tali “configurazioni cosmoteandriche” si può giocare senza fine – e Panikkar lo fa noi suoi scritti. Ma non solo di un gioco di parole qui si tratta proprio della realtà, della nostra vita. Direi: leggete, pensate, meditate.
RC: Un’ultima tua frase, fra tutto ciò che hai detto di importante e che sicuramente mi è sfuggito: “Eterno significa che non è del tempo, non di tanto, tantissimo tempo”. Ci dici qualcosa di più di questo essere fuori dal tempo?
MB: Questo pensiero riguarda la nostra esperienza e il nostro modo di pensare il tempo (e eternità). Spesso ci sembra che il tempo è qualcosa esterno a noi, scorre fuori e indipendentemente da noi, è meccanico e misurabile. Da qui tutta questa moderna “illusione” che ci manca tempo, che non abbiamo il tempo, che bisogna correre, che il tempo è convertibile in soldi (time is money), ecc. Invece tempo è qualcosa che scorre anche dentro di noi, noi siamo tempo – penso che proprio la meditazione schiude a questa percezione. Ma questo modo di pensare il tempo come qualcosa di misurabile e la nostra ossessione che “non abbiamo tempo”, ci fa pensare che l’eternità è un accumulo di tanto tempo aldilà (alla fine) del tempo. Pensando che non abbiamo tempo qui, sogniamo che in eternità avremo tanto tempo. È sbagliato pensare così del tempo e sognare eternità come “tanto tempo” non vuol dire assolutamente questo che dice il credo cristiano “credo in vita eterna”. Per farla breve: l’eternità non è tanto tempo, ma una dimensione in cui tempo non c’è. E la seconda osservazione: l’eternità non inizia “dopo la morte”, ma è qui e ora, nel tempo, quando l’eternità ci tocca. Una persona che medita conosce questa esperienza. Panikkar a proposito parla di “tempiternitas” (tempo-e-eternità) , un poeta che io amo molto, Czesław Miłosz, scrive del “momento eterno”. Ogni tanto percepiamo che un tale momento è eterno, ma ogni momento è eterno e una persona libera (dai concetti falsi riguardo la realtà) lo percepisce spesso, forse sempre.
© Maciej Bielawski (2011)
Caro Maciej, sono Roberto Capelli di Bergamo. Ci siamo conosciuti alla conferenza nazionale di meditazione cristiana in provincia di Padova, l’8, il 9 e il 10 aprile. Ti avevo chiesto l’indirizzo email, perché volevo chiederti un’intervista per il giornalino della nostra Comunità, su Raimon Panikkar, per poter estendere anche agli amici della mia Comunità le cose importanti che hai detto. Io mi ero scritto degli appunti, che sicuramente sono parziali anche perché quello che dicevi non riuscivo a registrarlo tutto; ma vorrei chiederti di approfondirli. Tu hai detto: “ i suoi libri sono labirinti da attraversare per essere trasformati”. Potresti dirci qualche parola di più?
MB: Inizierei distinguendo tra i testi che ci forniscono le informazioni e i testi che possono trasformarci. A questa distinzione si associa anche un’altra che riguarda il modo di leggere: si può leggere principalmente per informarsi e si può leggere per trasformarci. Ovviamente in concreto le distinzioni non sono cosi nette, ma penso, che va bene averle presente soprattutto quando si pensa dell’opera di Panikkar che ha scritto molto e i suoi testi sono affascinanti, ma anche difficili, seducenti, ma impegnativi. Sono, proprio, come un labirinto: uno entra e gira, gira, pensa che si è perso e forse anche ha l’impressione che leggendoli ha perso il tempo. Invece un giorno si rende conto che l’avventura della lettura di questi testi ha cambiato il suo modo di percepire la realtà. Questo “qualcosa” che trasforma, che è presente nei suoi scritti, non si trova esclusivamente nella loro dimensione informativa, perciò non può essere colto in un riassunto, in una spiegazione. Questo “qualcosa” giace tra le parole, in qualcosa che pre-testuale o oltre-testuale, che lentamente impregna la mente e il cuore del lettore. È superfluo aggiungere che queste osservazioni non riguardano solo l’opera di Panikkar, ma certamente si applicano perfettamente ai suoi scritti.
RC: Hai detto anche che la nostra identità è un misto di esclusività ed apertura. Esclusivisti quando escludiamo chi la pensa diversamente da noi. Inclusivisti quando facciamo entrare ma spesso solo allo scopo di “convincere al nostro pensiero gli altri. Viviamo anche una dimensione di “parallelismo” quando pare che accettiamo gli altri, tutte le altre religioni. Il grande rischio è che lo viviamo come indifferenza verso il pensiero, il credo dell’altro: tu fai la tua strada, io la mia. Una specie di “diplomazia di buone maniere”, l’hai chiamata. Raimon propone un ponte diverso: dialogo di interpenetrazione o fecondazione reciproca. Ci puoi dire qualche parola su questa sua visione?
MB: In Panikkar, come nella vita di ogni persona, le relazioni o i dialoghi sono molteplici. Ognuno di noi è un po’ esclusivista e un po’ inclusivista, si avvicina agli altri e si allontana. L’arte della vita sta, direi, nel saper armonizzare tutte queste tendenze. Invece la fecondazione reciproca, che non succede sempre e a tutti, è un legame dinamico in cui in una persona (o in una comunità) si incontrano due tendenze religiose. Non è un sincretismo, ma in tale incontro ambedue le parti si arricchiscono. Basta pensare come fecondo fu l’incontro del cristianesimo originariamente di stampo semitico con l’ellenismo – il Nuovo Testamento è stato scritto in greco, la maggior parte dei dogmi cristiani è stata espressa anche in greco. Ora però mi domando in che misura il cristianesimo è stato fecondo per l’ellenismo. Forse è una riflessione che bisognerebbe sviluppare.
RC: Ci hai poi parlato di un altro ponte, fra i tanti: il ponte del dialogo interreligioso, che per Raimon è piuttosto “intra-religioso”. Hai parlato di due corsie sul ponte: interreligioso è qualcosa di esterno, un capire, un dialogare a livello intellettuale; per l’altro dialogo hai fatto l’esempio di una frase di Paul Knitter: “Senza Budda non potrei essere cristiano”. Ci puoi dire qualcosa di più?
MB: Per Panikkar esiste un dialogo inter-religioso, ma lui, sottolineando un aspetto interiore, parla anche del dialogo intra-religioso. L’aspetto interiore, personale, profondo, che rende il dialogo fecondo, autentico, bello. Esso non esclude, ma completa, tutta la parte “esteriore”, che si potrebbe chiamare anche “la cultura del dialogo”. Il dialogo interreligioso e il dialogo intra-religioso sono complementari. Parlando del dialogo intra-religioso si sottolinea una vera e propria avventura, un rischio che è iscritto nell’aprirsi all’altro, è iscritto nella vita. Un ottimo esempio di come questo avviene può essere il bel libro di Paul Knitter, Senza Buddha non potrei cristiano, appena pubblicato in Italia da Fazi Editore nella collana Campo dei Fiori.
RC: Hai parlato anche, tra le tante cose, di Ecologia, e di Raimon che propone invece un’Ecosofia. Hai detto che l’ecologia, secondo Raimon, non basta più. L’ecologia è sempre un “colonialismo del logos” sulla terra. Va bene, si, magari si facesse questo. Ma non basta. Puoi aiutarci a capire meglio la differenza?
MB: L’ecologia è ancora un atteggiamento di conquista, di colonialismo, di sfruttamento. In un certo momento gli uomini si rendono conto che sfruttando la terra esagerano, dunque incominciano a calcolare (ecco l’uso del “logos”) come sfruttare la terra in un modo più prudente, più a lungo – ed ecco l’ecologia. Ma in questo atteggiamento è sempre l’uomo che comanda, che calcola, che pensa che solo lui è saggio (possiede la “sofia”). Facendo così non si rende conto che anche la terra ha la sua saggezza (“sofia”) che forse l’uomo potrebbe ascoltare. Forse l’uomo e la terra potrebbero imparare l’uno dall’altro. Ovviamente un industriale dirà subito: ma è folle! La terra, gli animali non hanno nessuna “sofia”. E invece le tradizioni dicono: ascolta la terra, guardo il fiume, lasciati attraversare dal vento, bacia la pietra, abbraccia un albero, lascia che il tuo cane ti porta a spasso (non vice versa), guardate i gigli, osservate gli uccelli. Ecco l’esosofia, che si potrebbe anche chiamare dialogo con la terra, con il cosmo, con il mondo.
RC: Hai detto anche che l’esperienza spirituale, l’esperienza mistica, negli ultimi 50 anni è diventata importantissima. Perché, secondo te?
MB: Se mi ricordo bene parlavo di una altra cosa. Cercavo di spiegare che ancora cinquant’anni fa la parole “esperienza” era bandita dal mondo cristiano, era vista da parte della “dottrina officiale” con il sospetto. Importante era ciò che era oggettivamente rivelato e insegnato dall’autorità gerarchica. Invece oggi il peso e l’attenzione si è spostato sull’esperienza. È un cambiamento notevole, è una rivoluzione. Le dottrine, gli insegnamenti delle gerarchie, le parole sacre, se non sono vissute, se non sono legate con la vita, se non si basano sull’esperienza e se non rimandano all’esperienza non hanno per noi valore. Forse da qui proviene l’importanza della ricerca dell’esperienza che chiamiamo (di nuovo a causa della mancanza di un'altra parole) “spirituale”. Penso alla meditazione: è una esperienza, è qualcosa che si vive, non qualcosa di cui si parla. La meditazione teoretica non esiste, un teoria sulla meditazione, anche la più bella, non è una meditazione. Vero?
RC: Tu dici che tutta l’opera di Raimon è un’esperienza, una visione, un’intuizione. E dici anche che Raimon è un mistico che parla della mistica, a differenza di uno studioso che parla della mistica, ma risulta “esterno” all’esperienza. Se leggiamo o ascoltiamo le parole di un mistico, ne captiamo il silenzio, non una dottrina, non un insegnamento…Ci puoi aiutare a capire meglio?
MB: E’ un mio modo di capire, di vedere e di interpretare Panikkar. Stando di fronte alla mole immensa dei suoi scritti, che nell’insieme sono piuttosto complicati, mi sono chiesto: Ma perché questo uomo ha scritto tutto questo e nel fondo che cosa voleva dire? Penso che in Panikkar lentamente si è creta un visione della realtà, una intuizione. Si potrebbe dire che lui aveva una esperienza (mistica), ma non in senso “classico”, cioè come “un fulmine”. Nel suo caso abbiamo piuttosto a che fare con un costante ed esteso emergere nel tempo di questa visione. Il suo scrivere, per tutta la vita è stato il modo di capire meglio questa sua intuizione, di approfondirla, per comunicarla agli altri. E proprio questa intuizione mistica, silenziosa, inesprimibile giace, come un fondamento, alla base di tutti i suoi testi. E leggendo i suoi libri, attraversando i suoi ragionamenti, perdendosi nell’immensità delle argomentazioni, prima o poi incominciamo a toccare questo fondamento inesprimibile che lui ha sperimentato e questa intuizione incomincia far parte di noi: vediamo il mondo in un modo diverso, viviamo diversamente, siamo trasformati. Non è una magia, come se il suo testo funzionasse come una mantra magica, no, ma l’esperienza mistica può essere comunicata – anche attraverso il testo scritto. Tutto questo vale anche per il discorso che Panikkar fa – in alcuni suoi scritti – sulla mistica. È una cosa curiosa. Lui parla della mistica, e sembra a prima vista di farlo come tutti i “misticologi”, cioè studiosi, accademici, ma nel fondo è un mistico che parla sulla mistica. Questo è una cosa rara, perché i mistici non parlano quasi mai della mistica – parlano sulla base della loro esperienza (mistica) generalmente senza parlare della mistica stessa. Panikkar invece (come mistico) parla anche della mistica, ma lo fa nascondendo il suo misticismo personale. Bisogna ricordare che a proposito del sue afflato mistico (di cui era consapevole) era molto discreto e si capisce perché: non voleva sentire la critica, che tutte le sue “teorie” sono “fantasie di un mistico” (nel senso negativo della parola). Ma come ho detto questo è la mia intuizione che ho a proposito di Panikkar e qualcuno potrebbe pensare, o proprio pensa, diversamente.
RC: Hai anche detto che la parola è simbolo, quando c’è stato un rapporto, un’esperienza tra noi e la cosa, fosse anche una pietra. Tutto ci parla, tutto è rivelazione. Hai accennato al simbolo dell’ultima cena, dell’Eucaristia. Potresti aiutarci a capire per poter vivere quel momento in modo più profondo?
MB: Il problema sta proprio nel fatto che voler troppo capire, di spiegare “tutto”, di parlare molto di simbolo distrugge il simbolo. Che cosa ha praticamente “ucciso” le celebrazioni eucaristiche della cristianità moderna? I discorsi dei celebranti che volevano (vogliono) spiegare tutto e praticamente non “fanno” il rito, ma ne parlano, come se avessero paura del vuoto, della povertà, ma anche della forza, di un gesto in cui si condivide (in memoria) il pane e il vino. Penso che proprio qui trova, una delle su spiegazioni, l’interesse della prassi meditativa da parte di tanti uomini e donne. Nella meditazione riusciamo a distanziarsi dai concetti, dalle teorie, dalle parole, perciò queste riprendono la loro forza incredibile. Ho impressione che ogni persona meditativa (ma questo ovviamente non significa solo star seduti e seguire qualche tecnica) conosce questa bella esperienza che dopo un tempo di una meditazione il legame tra la parola (per esempio “pietra”) e la pietra stessa che vediamo di fronte a noi, è più profondo. La parola “pietra” riceve un nuovo, più profondo, significato. La pietra stessa manda, direi, le onde della sua vitalità, veicolando sul suono della parola “pietra” e attraverso i nostri sensi entra nel nostro cuore, nella nostra menta e in questo momento noi impariamo qualcosa di nuovo (inaudito) su noi stessi e sulla realtà invisibile, inesprimibile, che avvolge tutto. Diciamo: le pietre mi parlano. Ecco come funziona “esperienza simbolica”. Ovviamente la pietra è solo un esempio che si potrebbe sostituire con altre parole-realtà come: l’altro, dio, cosmo… ecc.
Una domanda su un tema che mi pare non hai affrontato tu personalmente, ma che mi pare importante, fra le tante cose importanti: l’intuizione cosmoteandrica di Raimon. Puoi spiegarcela un poco?
La parola (Panikkar scherzava dicendo ogni tanto “la sua parolaccia”) cosmoteandrismo è stata creata da lui stesso e come un prisma riassume tutto il suo pensiero, e tutta la sua opera è come un arco baleno che è passato attraverso questo prisma. Questa parola è composta da tre parole: cosmos – theos – andreios; cioe: cosmo-dio-uomo. Già in questa parola è nascosto e rivelato tutto il mistero – sono tre le parole o è solo una parola? La parola rivela e nasconde. Cosmoteandrismo è il simbolo della realtà. È qualcosa di sperimentato e vissuto, qualcosa di inesprimibile, che nonostante ciò Panikkar per decenni si sforza di spiegare. Semplicemente cosmoteandrismo vuol dire che la realtà “è fatta” (vedi come deboli sono le nostre parole) da tre “componenti”: cosmo/materia – uomo/consapevolezza – dio/spirito. Questi tre elementi sono distinguibili, ma inseparabili; esistono insieme in un modo armonioso, non in qualche forma di subordinazione. Questo sembra ovvio e facile, ma le conseguenze di tale proposta sono sorprendenti: non esiste un dio senza cosmo e uomo, anche l’uomo non è pensabile senza un dio e senza il cosmo, e il cosmo è legato con l’uomo e divinizzato. Con tali “configurazioni cosmoteandriche” si può giocare senza fine – e Panikkar lo fa noi suoi scritti. Ma non solo di un gioco di parole qui si tratta proprio della realtà, della nostra vita. Direi: leggete, pensate, meditate.
RC: Un’ultima tua frase, fra tutto ciò che hai detto di importante e che sicuramente mi è sfuggito: “Eterno significa che non è del tempo, non di tanto, tantissimo tempo”. Ci dici qualcosa di più di questo essere fuori dal tempo?
MB: Questo pensiero riguarda la nostra esperienza e il nostro modo di pensare il tempo (e eternità). Spesso ci sembra che il tempo è qualcosa esterno a noi, scorre fuori e indipendentemente da noi, è meccanico e misurabile. Da qui tutta questa moderna “illusione” che ci manca tempo, che non abbiamo il tempo, che bisogna correre, che il tempo è convertibile in soldi (time is money), ecc. Invece tempo è qualcosa che scorre anche dentro di noi, noi siamo tempo – penso che proprio la meditazione schiude a questa percezione. Ma questo modo di pensare il tempo come qualcosa di misurabile e la nostra ossessione che “non abbiamo tempo”, ci fa pensare che l’eternità è un accumulo di tanto tempo aldilà (alla fine) del tempo. Pensando che non abbiamo tempo qui, sogniamo che in eternità avremo tanto tempo. È sbagliato pensare così del tempo e sognare eternità come “tanto tempo” non vuol dire assolutamente questo che dice il credo cristiano “credo in vita eterna”. Per farla breve: l’eternità non è tanto tempo, ma una dimensione in cui tempo non c’è. E la seconda osservazione: l’eternità non inizia “dopo la morte”, ma è qui e ora, nel tempo, quando l’eternità ci tocca. Una persona che medita conosce questa esperienza. Panikkar a proposito parla di “tempiternitas” (tempo-e-eternità) , un poeta che io amo molto, Czesław Miłosz, scrive del “momento eterno”. Ogni tanto percepiamo che un tale momento è eterno, ma ogni momento è eterno e una persona libera (dai concetti falsi riguardo la realtà) lo percepisce spesso, forse sempre.
© Maciej Bielawski (2011)