FRAMMENTI DI MEMORIA Maciej Bielawski parla con Mateusz Pieniążek |
Che cosa significa essere un poeta polacco?
Per prima cosa vuol dire essere nati in Polonia, secondariamente significa essere un bardo della nazione e nello stesso momento rifiutare tale ruolo. È ovvio che non è possibile cancellare le tracce sulle quali si cammina dall'infanzia, con la consapevolezza della fonte zampillante della Patria che impregna l’esperienza della terra. Sembra che questa domanda in tono colloquiale celi al suo interno tranelli nazionali, togliendo alla parola la sua potenza universale. Ma rifiutare tutto ciò sarebbe artificioso, sarebbe una fuga nel sincretismo artistico che porterebbe in zone estranee, al di là del linguistico, con una varietà di suoni intoccabili. Essere poeta polacco è compito di grande tenore e significato. Una volta nel mio saggio “Un po’ di sublimità, in merito a poesia, luogo e tempo”, inserito nel volume Poesie mendicate, ho scritto che la poesia ha senso quando si riesce ad avvicinarla corporalmente. Questo significa umiltà e devozione. Il termine dell’ultima notte che ogni uomo sperimenta dovrebbe diventare la stella polare per ogni artista, nella sua creatività e ricerca, nelle sue intuizioni metafisiche, nelle escatologie dei suoi atti poetici. Ognuno di noi è un individuo unico e irripetibile. Un poeta polacco succhia la storia polacca e non è in grado di distanziarsi da essa. È immerso in essa anche quando cerca di evitarla. Ma a dir il vero, la poesia di un pathos nazionalistico mi è estranea, anzi direi che non mi piace. Parlando di poesia polacca sottolineo solo il legame con la terra in cui sono nato, con una certa immaginazione, modo di pensare e di credere e tutto quanto fa parte di varie associazioni che si prendono in considerazione pensando ad un lettore.
Che influsso ha avuto su di te la poesia polacca del Novecento con i suoi due Nobel?
Nella mia vita prima di tutto erano presenti i romantici (Słowacki, Norwid e i poeti dei confini orientali innamorati degli spazi di una Polonia che non esiste più). C’era Leśmian, c’era Gałczyński, un avventuriero, maestro di incanto lirico irrepetibile, uno stregone, da cui non sono stato in grado di liberarmi per molto tempo; poi, naturalmente Różewicz, Herbert. Oggi apprezzo molti per il loro singoli versi, tra cui Zagajewski, Krynicki, Dąbrowski, Tkaczyszyn-Dycki, Szuber. Szymborska non mi ha mai toccato e neanche Miłosz. Di fronte a lei mi sono sempre fermato come di fronte ad un muro. Cercavo il sacro. Dov’era nella sua poesia? Per me lei è poetessa dell’animazione culturale. Miłosz è ampio, alto, largo. È un spazioso poeta della cultura. Parla di molte cose, è sensibile al sacrum e al profanum. Sono in grado di parlare con lui, discuto i suoi temi filosofici, estetici, apprezzo le sue ricerche semantiche. È un poeta che si incanta e poi cerca di incantarsi nuovamente.
Come potresti descrivere questo angolino di mondo, Zielone Wzgórza (Colline Verdi) vicino Przemyśl, in cui vivi e dal quale dipingi il tuo mondo poetico?
Sono venuto qui dalla città. Sono un ragazzo di strada, di una piccola città, con tutto il suo bagaglio di problemi dell'infanzia e dell'adolescenza. Lo scontro con la natura della campagna, un mondo violento ma vicino alla vita, ha avuto ripercussioni specifiche sulla mia creatività, sul mio giocare con le parole. Tra distese di campi e boschi, arrivando alla tenuta dei miei suoceri, mi ero sentito assediato e al tempo stesso “rinnovato”. Questo fatto ha avuto un grande impatto sulla mia creatività, mi ha impregnato in un modo speciale, positivo, forte e autentico. Il mio orizzonte si è allargato e lo sguardo sublimato, così anche la percezione delle parole è diventata molto ispirante. In tutto ciò c’era una grande vitalità nel senso umano e artistico. La lingua doveva crescere al pari di questa forza estetica e semantica. Qui mi sono sentito non solo come un poeta, ma anche come un naturalista, un archeologo, un esploratore di concetti e significati, un esteta e anche un vero padre. Qui sentivo il peso del mondo da cui provenivo. Lo spostamento, per forza, era doloroso. Il mondo lasciato aveva il proprio profumo, suono, gusto, vibrazione. Nella città la poesia nasceva al crocevia di due “reality show”: da una parte, le parate del primo maggio con le bandiere rosse, dall’altra, le processioni ecclesiali con i loro stendardi. Gli inni ecclesiali si scontravano con i canti rivoluzionari degli operai. La devozione dal tono lamentevole con il populismo comunista dal ritmo marziale. Poi, una volta così importante, il mondo con le strade della città si era spostato in secondo piano e si è deprezzato. Sono nate le Colline Verdi e tutto è diventato molto privato. Un melo privato, un giardino, tracce di uccelli, gatti, cani, il movimento delle ali azzurre delle cinciallegre, una stella alla finestra della camera da letto, un piccolo lume nella cappella della Beata Vergine. Ho lasciato la città. Sono entrato in un altro teatro che per sempre sarebbe diventato un Unico Grande Verso.
Come e quando hai iniziato a scrivere versi?
Tempo fa, ai tempi del liceo, scrivevo poesie erotiche e, circondato da una schiera di ragazze, mi sentivo un eletto. Non ne ero orgoglioso, benché d'altra parte, penso, mi fossero estranee la modestia e l'umiltà. Ho avuto molti quaderni riempite di prime composizioni poetiche, schizzi e disegni. Scrivevo, mi ricordo bene, i miei versi seduto sulle lapidi di cimitero. Vicino del posto in cui abitavo c’era il cimitero comunale. Nascosto nel cespuglio di syringa (lilla) o seduto su una lapide prendevo un foglio di carta e scrivevo. Questo ricordo, ancora oggi, è per me emozionante. La natura profonda entrava nella psiche, costruiva stati emotivi e mi spingeva senz’altro a muovermi intorno ai temi generali dell’arte, ma anche alla poesia e alla musica (suonavo il pianoforte eseguendo Bach, Chopin, Mozart, Czerny, Burgmiller, etc.). A vent’anni ho fatto il mio debutto in un giornale e poco dopo ho pubblicato un libretto con le mie poesie. Cercavo la mia voce, il mio linguaggio, il mio stile. È stato difficile trovarlo sapendo chi mi aveva perceduto. A quell’epoca leggevo molta poesia inglese, francese e quella polacca dai romantici ai simbolisti, poeti come Leśmian, Gałczyński, Grochowiak. Amavo Słowacki.
Come ti percepivano e come ti percepiscono coloro che ti sono vicini: i genitori, la moglie, i figli?
Il mio casino è mio. Questi sono mondi inaccessibili. Mia moglie non legge i miei versi, o forse lo fa segretamente guardando tutto ciò che ho scritto su di lei. Questa curiosità femminile, una vivisezione viscerale, dà l’impressione che a lei non importi quel che scrivo, ma nonostante ciò getta un’occhiata alla pagina prima ancora che io gliela legga. I bambini sono consapevoli che sono un strano animale variopinto, e che questo animale è uno dei loro genitori e che per giunta possiede un “passaporto” che gli permette di descrivere il mondo in un modo tutto suo. Quest’uomo, cioè io, è estraneo, un po’ matto, e nonostante ciò è vicino, amato, marito e padre. Ma nessuno interferisce con i miei interessi artistici e nessuno mi dà dei consigli. In questa dimensione della mia vita sono totalmente autonomo.
Quale è la relazione tra le tue poesie e le altre forme letterarie che pratichi?
Principalmente il mio è un mondo della poesia con tutta la sua profondità. Solo col tempo ho scoperto la poesia per bambini, che tutt’ora coltivo. Questa è un vero divertimento con tutta la ricchezza della lingua che il bambino prende in un modo innocente, con tutta la sua autenticità, senza fronzoli di valutazioni e giudizi. Così ho creato centinaia di poesie per bambini, e poi anche leggende, racconti, fiabe e sogni.
Come nascono le tue poesie?
È un’alchimia molto personale. Attivo tutti i sensi. Letteralmente. Heaney ha scritto di un “sesto senso e settimo cielo”. Faccio più o meno qualcosa del genere. Non uso la macchina fotografica, solo i fogli di carta e la matita. Annoto riflessi, bagliori, scorci. Accumulo molti appunti e note. Le chiamo schianti e lampeggi. È proprio da essi che ogni tanto nasce una poesia. Recentemente molte poesie sono nate come ispirazioni di viaggio e mi sono venute bene. Dall’incontro di varie culture nascono i problemi semantico-culturali. La poesia può risolverli. Così fu sempre, in ogni cultura, in ogni tribù o nazione. Ho scritto dunque le raccolte intitolate Poesie americane, Poesie irlandesi, Poesie moldave. I titoli sono simili, ma i contenuti, i simboli, gli archetipi sono molto diversi. Nella prima raccolta si vedono i Caraibi come decisamente piatti se confrontati alla mia patria; la seconda è segnata da passeggiate molto maschili sull’Isola Verde con Yeats, Joyce e Beckett; nella terza si sente dolore, povertà e bellezza di una terra di cui mi sono innamorato. Al primo libro appartiene il colore azzurro, al secondo il verde, al terzo il nero lucido.
Quali poeti stranieri sono e sono stati importanti per te?
Ce ne sono stati molti. Cominciamo con Hölderlin e i suoi vicoli bui con una dimensione profonda dell’esistenza umana, poi Celan, esploratore dell’anima post-tragica, in seguito l'intera gamma di ribelli visionari americani incominciando da O'Hara, Koch, Ashbery, quindi Lowell, Larkin, il mio preferito Heaney e Longley. Dovrei pure aggiungere Carlos Williams e Robert Bly.
Dalla poesia italiana chi conosce e apprezzi?
La conosco poco. Nella mia giovinezza ho letto Montale, perché dopo il suo premio Nobel le sue poesie uscivano tradotte nella rivista Letteratura nel mondo. Lì ho conosciuto anche Ungaretti e Pavese con questo bellissimo verso: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Ho letto Pasolini, Gatto, Sereni. Devo pur menzionare Alighieri, è un classico da cui probabilmente sono nati tutti i poeti italiani.
Come nella tua frase poetica funzionano ritmo e rima?
Non importa se mantengo o no la rima. È importante con quale voce esprimo il non detto, come dice Jabès: “Non importa se scrivo in prosa o in versi. Importante è se possiedo il cosiddetto orecchio interiore…” La rima non è un requisito necessario. Quando mi esprimo in rime esse non sono un ostacolo, al contrario possono indurre alla ricerca di sensi nuovi e attraverso le rime si possono creare mondi che prima non erano mai esistiti. Questo può essere una bellissima avventura di creatività. Mi sembra che il ritmo è più importante. È grazie a lui che la poesia vibra, risuona e funziona come un spartito ben scritto, in cui si sente tutta una sinfonia delle parole e dei contenuti.
Quali sono i tuoi tropi, segni e simboli poetici. Ogni poeta ne ha. Sono loro che danno un marchio personale e irripetibile.
Questi dipendono dagli archetipi dell’artista. È da essi che lui prende il suo nutrimento, cresce e si forma a partire da essi. Ci sono poeti della notte con tutta la gamma dei colori scuri. Questo dipende dall’anima dell’autore che si esprime poi attraverso i concetti esistenziali. Ci sono poeti solari con una serie di bagliori e abbagliamenti, dai quali pescano le verità su se stessi sia nei momenti di esaltazione sia nelle cadute. È ovvio che un poeta è anche un lettore, ha le sue letture preferite, le proprie esperienze, il suo passato che lo segue come un fardello. Sulla base di varie esperienze nascono le composizioni e le narrazioni che il poeta propone a se stesso e al mondo. Tali tropi si possono indicare anche nella mia poesia. Di solito lo fanno i critici, nel bene e nel male. Hanno diritto a tale operazione penetrante e ricostruttiva. C’è da augurarsi che le loro conclusioni siano sagge e che non scrivano sciocchezze.
Da dove nascono le tue visioni poetiche, ampiamente presenti nei tuoi versi?
Le mie poesie sono come musica scritta per voci in cui si sente pure la mia voce inconfondibile. Mi piace fare così. Attingo alla mia biografia e alle mie esperienze. Questo è il migliore atelier dell’artista. Nessuno ha mai inventato di meglio a proposito. Il carattere ascetico di una poesia, il toccare il mondo da vicino, il discorso che rassomiglia ad un’confessione (in questo caso sento una affinità con i poeti americani) mi incuriosisce e mi rallegra immensamente. Ammiro un modo semplice di parlare, ma dovevo crescere per raggiungerlo diventando nello stesso tempo più me stesso. Nell’età matura si reagisce alle scoperte dell’infanzia segnata dalle profondità vitali.
Che cosa pensi delle tue poesie tradotte in italiano?
Durante un incontro che promuoveva la pubblicazione del volume Sussuri e voci in Polonia ho ascoltato le poesie lette in italiano. Non conosco questa lingua, ma sentendo la sua melodia mi sentivo come se fossi in un concerto musicale. Sono contento che in quel paese, che ha una tradizione poetica così stupenda, si siano trovate persone che si sono chinate sui miei versi. Senza dubbio il merito è del mio amico Maciej Bielawski, che ha collaborato con Paola Pisani e Carlo Mercuri per tradurre alcune delle mie composizioni. La visita a Verona è un onore per me ed è un piacere incontrare persone molto sensibili.
(aprile 2015)