Maestro nella tradizione cristiana
Il tema “Maestro nella tradizione cristiana” è ampio e può essere spiegato da diverse angolature (storica, sociologica, filosofica, dottrinale, ecc). Non potendo affrontarlo in modo esauriente in questa sede, si è voluto dare almeno alcune linee generali di riflessione a proposito. A tale scopo sono stati scelti alcuni testi che potrebbero essere considerati “classici” o “rappresentativi”. Questa operazione “retorica” potrebbe essere paragonata ad una esposizione di quadri – con la viva speranza d’aver scelto testi adatti a rendere l’idea del tema “Maestro nella tradizione cristiana”. Il presente saggio prende pertanto la forma di un commento che si accompagna ad una antologia.
Il tema “Maestro nella tradizione cristiana” è ampio e può essere spiegato da diverse angolature (storica, sociologica, filosofica, dottrinale, ecc). Non potendo affrontarlo in modo esauriente in questa sede, si è voluto dare almeno alcune linee generali di riflessione a proposito. A tale scopo sono stati scelti alcuni testi che potrebbero essere considerati “classici” o “rappresentativi”. Questa operazione “retorica” potrebbe essere paragonata ad una esposizione di quadri – con la viva speranza d’aver scelto testi adatti a rendere l’idea del tema “Maestro nella tradizione cristiana”. Il presente saggio prende pertanto la forma di un commento che si accompagna ad una antologia.
Gesù Gesù si presenta, agisce ed è capito come Maestro (Rabbi – Rabbuni): discute con altri dotti, possiede i suoi discepoli, fa dei segni (miracoli), agisce e insegna con l’autorità. Non scrive. La sua attività come Maestro è relativamente breve (al massimo 3 anni). Ai suoi seguaci Gesù richiede una rinuncia e una dedizione assai estreme, per la via scelta. Uno per essere suo discepolo deve essere svincolato: “Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me” (Mt 10, 37). Per essere suo discepolo non bastava ascoltare le sue parole, ma incarnarle nella vita. Non a tutti però era permesso di seguirlo – Gesù sottolinea che non sono i discepoli a sceglierselo, ma è lui che sceglie i suoi discepoli; e ad uno da lui guarito esplicitamente impedisce di seguirlo (cf. Mc 5,1-20).
Di fronte ai maestri esistenti del suo tempo e nel suo contesto si esprime e si comporta in modo critico, esplicitamente accusandoli di falsità, d’ipocrisia e di vuoto interiore:
Sulla cattedra di Mosé si sono assisi gli scribi e i farisei. Fate e osservate ciò che vi dicono, ma non quello che fanno. Poiché dicono, ma non fanno. Legano infatti pesi opprimenti, difficili a portarsi, e li impongono sulle spalle degli uomini; ma essi non li vogliono rimuovere neppure con un dito. Fanno tutto per essere visti dagli uomini. Infatti fanno sempre più larghe le loro filatterie e più lunghe le frange; amano i primi posti nei conviti e le prime file nelle sinagoghe; amano essere salutati nelle piazze ed essere chiamati dalla gente rabbi. Ma voi non vi fate chiamare rabbi, poiché uno solo è fra voi il Maestro (ho didàskalos) e tutti voi siete fratelli. Nessuno chiamerete sulla terra vostro padre, poiché uno solo è il vostro Padre, quello celeste. Non vi farete chiamare precettori (ho kathegemòn – duce, capo, guida), poiché uno solo è il vostro precettore, il Cristo. Chi è il maggiore fra voi sarà vostro servitore. Chi si esalterà sarà umiliato, e chi si umilierà sarà esaltato” (Mt 23,2-12). In altri momenti ammoniva i suoi discepoli di essere attenti di fronte ai possibili falsi profeti o insegnanti (Mt 6,15-20).
Accanto a questi tratti di Gesù come maestro, che sono comuni per tanti altri maestri, si possono anche notare alcune sue caratteristiche particolari. In quanto Gesù insegna e si presenta come un esempio da seguire, alla fine sembra che non tanto importi né il suo insegnamento né il suo esempio, quanto piuttosto la sua presenza. Per certi versi, nella visuale di Gesù non tanto importa mettersi in contatto con la sua meastrà, ma scoprire e toccare la sua presenza che in qualche modo va oltre l’uso hic et nunc. Gesù, quasi volesse che i discepoli scoprano qualcosa di più grande che si trova oltre di lui e d’altra parte riescano a trovarlo in tutto, dice per esempio: “Chi accoglie voi accoglie me e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta in quanto profeta, riceverà la ricompensa di un profeta. Chi accoglie un giusto in quanto giusto, riceverà la ricompensa di un giusto. Chi avrà dissetato anche con un solo bicchiere d'acqua fresca uno di questi piccoli, in quanto discepolo, in verità vi dico: non perderà la sua ricompensa” (Mt 10,40-42). In modo tanto bello quanto paradossale Gesù allarga la sua presenza sia ai bambini (cf. Mt 18, 5), sia ai poveri (cf. Mt 25, 31-46). Con questo Gesù si presenta come un maestro originale: è tanto necessario quanto sostituibile da un bambino o da un poveraccio, scompare per rimanere e rimanendo richiede ai discepoli di andare oltre lui stesso.
Con la sua vita e con il suo insegnamento Gesù schiude, tra l’altro, un aspetto sulla realtà del maestro nel cristianesimo veramente paradossale e cioè il fatto che nonostante l’impedimento di Gesù di non avere altri maestri, il cristianesimo ne era ed è pieno; perché? Questo fenomeno da una parte può essere visto “negativamente”: in assenza di Gesù, altri continuano la sua via e proponendoLo, di fatti propongono loro stessi (Gesù ha detto ma io vi dico…). D’altra parte se ne può scoprire un senso “positivo” attraverso una teologia “presenzionista” e “spirituale” (o spiritualizzata): i cristiani credono non solo che lo Spirito di Dio era in Gesù, ma anche che nello stesso Spirito presente nel mondo in qualche modo sempre dimora ed è presente Gesù Cristo. Questa realtà può essere osservata in modo chiaro e clamoroso nella persona e nell’insegnamento di Paolo di Tarso, chiamato anche l’Apostolo della nazioni.
Paolo di Tarso
L’epistolario di Paolo di Tarso ha avuto un ruolo importantissimo in tantissime dimensioni del cristianesimo, anche in questo legato con il tema di maestro. Paolo non solo agisce da maestro, ma è anche uno di quelli che sviluppano un’intera dottrina a proposito (cioè che cosa vuol dire e come si è “maestro” – pur paradossalmente rimanendo discepolo di Cristo – in cristianesimo). Per vedere almeno alcuni aspetti del suo insegnamento a proposito sono stati scelti i due frammenti dalle sue lettere ai Corinzi.
(a) Anch'io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Mi ero proposto di non sapere altro in mezzo a voi che Gesù Cristo, e lui crocifisso. E fui in mezzo a voi nella debolezza e con molto timore e tremore; e la mia parola e il mio messaggio non ebbero discorsi persuasivi di sapienza, ma conferma di Spirito e di potenza, affinché la vostra fede non si basi su una sapienza umana, ma sulla potenza di Dio. Annunziamo, sé, una sapienza a quelli che sono perfetti, ma una sapienza non di questo mondo, né dei principi di questo mondo che vengono annientati; annunziamo una sapienza divina, avvolta nel mistero, che fu a lungo nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei tempi per la nostra gloria. Nessuno dei principi di questo mondo l'ha conosciuta; se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: Cosa che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo, ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano. Ma a noi l'ha rivelato mediante lo Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi mai conobbe i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così pure i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. E noi abbiamo ricevuto non lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, per conoscere i doni che egli ci ha elargito. E questi noi li annunziamo, non con insegnamenti di sapienza umana, ma con insegnamenti dello Spirito, esponendo cose spirituali a persone spirituali. L'uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne giudica solo per mezzo dello Spirito. L'uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. Chi, infatti, conobbe la mente del Signore da poterlo dirigere? Ora noi abbiamo la mente di Cristo (1 Cor 2,1-16).
Paolo si presenta soprattutto come uno che parla e presenta Gesù Cristo, perché è convinto di conoscerLo. Il suo è un tipico tratto dei maestri cristiani di tutti i tempi: sempre convinti di insegnare agli altri su Gesù Cristo, con il desiderio di portarli alla conoscenza (spesso chiamata anche fede) in Lui. Questo tratto che potrebbe essere chiamato “cristocentrico”, non è però libero da un certo paradosso chiaramente riconoscibile già nella persona di Paolo. Il paradosso sta nel fatto che Paolo non ha mai conosciuto Gesù (così detto storico). Per giustificare o spiegare (e spiegarsi) questo paradosso Paolo – e poi tutti gli altri – elabora una dottrina sullo Spirito Santo che potrebbe essere spiegata così: durante la vita di Gesù lo Spirito di Dio era presente ed operava in Lui, ma dopo la sua risurrezione questo Spirito è stato dato ad altri e ora questo Gesù opera invisibilmente dal di dentro di questo Spirito. Perciò Paolo si è abituato a parlare di/in una cristologia pneumatologica (lo Spirito presente in Gesù durante la sua vita) e di/in una pneumatologia cristologica (Gesù Cristo è presente in ogni azione dello Spirito). Questo inter-agire tra Gesù e lo Spirito, sperimentato dai credenti, perché strano e non visibile spesso è chiamato “mistero”. Paolo agisce come maestro e costruisce la sua dottrina sul maestro proprio dall’interno di questo mistero, per questa ragione può anche essere chiamato “l’uomo spirituale”.
L’insegnamento sullo Spirito di Dio in Paolo, se si pensa bene, è sorprendente: di fatti lui dice che lo stesso Spirito, che è presente e costituisce la parte più profonda di Dio in qualche modo è presente e costituisce anche la parte più profonda dell’uomo. La scoperta di questa presenza e il lasciarsi guidare da essa, dà a Paolo la forza vitale e il coraggio nell’insegnamento. Appoggiandosi su questa forza interiore Paolo parla – questo è ancora un tratto caratteristico del maestro cristiano: il parlare. Cosciente della “povertà della parola” è nello stesso tempo convinto della sua incredibile forza. Anche in questo caso si ha a che fare con una dottrina spirituale: le parole nascono dallo Spirito di Dio che abita nell’uomo, diventano un veicolo con il quale lo Spirito si comunica, per far nascere (o scoprire) nelle persone, che ascoltano le parole dell’insegnante, la presenza di questo Spirito intessuto dalla presenza di Cristo.
Paolo poi, pur negando la sua retorica (un altro paradosso), si serve ampiamente dell’arte di parlare (e scrivere) di cui è assai dotato: mezzi “mondani”, ma l’Apostolo è convinto che il suo insegnamento sia ben diverso da tutte le altre dottrine di questo mondo. Egli considerava tutte le altre forme di sapienza vane rispetto al suo predicare di Gesù crocifisso.
(b) Mi sembra in realtà che Dio abbia messo noi, apostoli, all'ultimo posto, come dei condannati a morte, poiché siamo stati resi spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a motivo di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; noi disprezzati, voi onorati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo erranti e fatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; fino al presente siamo divenuti come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti! Non per farvi arrossire vi scrivo questo, ma per ammonirvi, come miei figli carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi (paidagogoùs) in Cristo, ma non certo molti padri (patéras); io invece vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo. Vi esorto, dunque, fatevi miei imitatori (mimetaì mou gìnesthe)! (1 Cor 4,9-16)
L’insegnante dà credibilità alle sue parole con la propria vita e Paolo ne è un esempio. Per poter insegnare e proprio per quello che insegnava, Paolo ha sofferto incomprensioni, persecuzioni e alla fine la morte. Egli lega conoscenza e verità con la testimonianza: il testimoniare la verità con la propria vita rende la verità leggibile agli altri ma anche consente al maestro che la trasmette, di approfondirne il contenuto. Perciò in Paolo si trovano anche alcune tracce per una dottrina sul progresso spirituale, cioè i passi di una vita cristiana che possiede un suo inizio, un suo periodo di crescita, una sua maturazione. Una persona iniziando il cammino non sa dove arriverà: Paolo che cadeva nei pressi di Damasco di fronte ad una luce e alla voce di Cristo non sapeva che l’evento lo avrebbe condotto un giorno alla decapitazione a Roma.
Nel frammento sopra presentato si colgono anche i semi della futura dottrina sulla paternità spirituale così ampiamente diffusa nel cristianesimo. L’adesione a Cristo verso una piena fede in Lui è come una nascita e chi la promuove può giustamente essere chiamato padre. Va notato che Paolo non si paragona ad un pedagogo che significa accompagnatore (originariamente e letteralmente uno che porta i bambini lungo la strada a scuola) di un processo di crescita, ma al padre che sta alle origini di una vita stessa – e questo padre deve e può essere solo uno. A questo punto si può fare una domanda: in quale misura una tale mediazione umana è indispensabile, in quale misura l’uomo può pretendere si essere un padre spirituale e come questo si lega con il divieto fatto da Gesù stesso di non chiamare in questa terra nessuno con nome di padre, perché esiste soltanto uno, unico, Padre, cioè colui che sta nei cieli.
Un terzo elemento da sottolineare ai margini di questo testo è la dottrina sull’imitazione (mimesis) – un tema tanto presente nel cristianesimo e profondamente legato con il tema di maestro. Uno dei libri più letti nella tradizione cristiana occidentale è la Imitazione di Cristo di Tomaso à Kempis, anche se Gesù stesso raccomandava di seguirlo piuttosto che di imitarlo. Imitazione è fortemente legata con visibilità: si imita uno che si vede. D’altra parte nel caso di un maestro cristiano dovrebbe essere visto in lui qualcosa di Cristo – come se lo Spirito che abita in lui scavasse qualcosa nel suo corpo e nel suo volto che agli occhi dei discepoli potrebbe essere chiaramente riconosciuto come “cristico”. Si ricorda che l’imitazione è molto diffusa nel cristianesimo: alle origini del francescanesimo alcuni frati tentavano persino di imitare Francesco nel modo in cui camminava; da qui poi proviene la voglia di imitarne il vestito, la capellatura e altri comportamenti del maestro. Ed fu Paolo di Tarso il primo a presentarsi come maestro da imitare.
Antonio il Grande
Antonio il Grande (251-356), chiamato anche l’Abate o dell’Egitto, è una delle figure più eminenti del mondo cristiano. Con lui si è aperta una nuova via dell’ideale cristiano – quelle ascetica e monastica. Antonio di fatti non era né un predicatore (come san Paolo), né un martire o un confessore per la fede, ma un asceta e come tale si presenta come uno dei primi (se non proprio il primo) maestri di stampo ascetico che ha dominato il mondo cristiano fino ai tempi recenti.
Come Gesù si conosce principalmente attraverso i vangeli, così Antonio è conosciuto principalmente attraverso la sua biografia scritta dal vescovo Atanasio d’Alessandria (295-373). Atanasio ha conosciuto direttamente Antonio ed ha scritto la sua vita subito dopo la morte del monaco. Questo testo diventò un “classico” e la figura di Antonio, almeno come è stata descritta da Atanasio, si affermò nel mondo cristiano di tutti i tempi e di tutte le culture. Sulla base della Vita di Antonio si possono osservare alcuni punti salienti che caratterizzano un maestro come: l’origine della chiamata, le tappe della vita e l’irraggiamento.
La prima cosa che veramente colpisce nel caso di Antonio è la sua lunga e lenta crescita. Orfano all’ età di circa 20 anni, ben presto intraprese la via dell’ascesi (rinuncia dei beni, digiuno, veglia, preghiera, opere di misericordia, solitudine, ecc.) che praticò per circa 35 anni. Soltanto dopo questo periodo si può parlare dell’irraggiamento di Antonio come maestro (insegnamento, miracoli, formazione dei discepoli, interventi nella vita pubblica). Antonio morì, riconosciuto come “padre d’Egitto” all’ età di 104 anni. Già da questo breve percorso cronologico si possono trarre almeno tre importanti conclusioni riguardo a lui come maestro: (1) Antonio intraprende la vita dell’ascesi non per diventare maestro ma per consolarsi e per salvarsi e il suo essere maestro deriva da questa ricerca più fondamentale; (2) Antonio inizia a svolgere il suo ruolo di maestro dopo numerosi (almeno 35) anni di vita nascosta e ascetica; (3) in qualità di maestro Antonio ormai anziano apre una catena di “anziani” – per questo molto spesso nel mondo cristiano (ma non soltanto) l’essere maestro sarà legato con l’ età avanzata, anche se questo concetto sarà criticato molto presto da tanti: per esempio Giovanni Cassiano (+430 ca.) cercherà di mostrare che non sempre i capelli grigi significano “sapienza” o un Palladio (IV/V secolo) creerà un termine paidariogeronta (giovane–vecchio) per dire che un maestro può essere giovane ma pieno di sapienza come un anziano o se anziano possederà anche uno spirito giovanile (Storia Lausiaca 17,2).
Oltre questi tratti assai interessanti di modello di maestro cristiano la Vita di Antonio ne propone altri. Uno di questi riguarda gli inizi della vita di questo monaco. Nel testo di Atanasio si legge:
Allora, infatti, non c’erano ancora in Egitto tanti monasteri e i monaci non conoscevano ancora il grande deserto; chi voleva vigilare sulla propria vita si dedicava all’ascesi in solitudine non lontano dal proprio villaggio. Vi era allora nel villaggio vicino un vecchio che dalla giovinezza si era esercitato nella vita in solitudine. Antonio lo vide e gareggiò con lui nel bene. In primo tempo cominciò anch’egli ad abitare nei dintorni del villaggio e, quando sentiva parlare di qualcuno che era pieno di fervore, andava a cercarlo come una saggia ape e non faceva ritorno a casa sua prima di averlo visto e di aver ricevuto una sorta di viatico per perseverare nella via della virtù. (San Atanasio, Vita di Antonio, 3).
Da questo frammento risulta che Antonio, pur seguendo alcuni altri che lo hanno preceduto sulla via d’ascesi, non ha posseduto di fatti nessun “vero maestro”. Si potrebbe dire che pur imparando da altri ”qualcosa”, ha imparato “tutto” da solo. Da questo risulta che per certi versi uno diventa maestro “da solo” scavando o percorrendo alcune dimensioni dell’esistenza per primo e a proprie spese. Certo, fondamentale rimarrà, anche nel caso di Antonio, un forte riferimento all’insegnamento di Gesù e della Scrittura (la Vita di Antonio e incluso in essa l’insegnamento di questo monaco sono intessute di tantissimi riferimenti e interpretazioni della Bibbia).
Atanasio, scrivendo di Antonio, coglie il momento di svolta, in cui il monaco uscendo da una lungo isolamento e apparendo inizia il periodo del suo irradiamento:
Passò così circa vent’anni, da solo, nella vita ascetica, senza uscire e senza mai farsi vedere. Poi, siccome molti desideravano ardentemente imitare la sua vita d’ascesi, e poiché sono venuti altri suoi amici e avevano forzato e abbattuto la porta, Antonio uscì come un iniziato ai misteri da un santuario e come ispirato dal soffio divino. Allora per la prima volta, apparve fuori del fortino a quelli che erano venuti a trovarlo. Ed essi, quando lo videro, rimasero meravigliati osservando che il suo corpo aveva l’aspetto abituale e non era né ingrassato per mancanza di esercizio fisico, né dimagrito a causa dei digiuni e della lotta contro i demoni. Era tale e quale l’avevano conosciuto prima che si ritirasse in solitudine. E anche il suo spirito era puro, non appariva triste, né svigorito dal piacere, né dominato dal riso o dall’afflizione. Non provò turbamento al vedere la folla, non gioiva perché salutato da tanta gente, ma era in perfetto equilibrio, governato dalla ragione, nella sua condizione naturale. (San Atanasio, Vita di Antonio, 14).
Da notare, aspetto importantissimo, che la gente è colpita non tanto da insegnamenti o miracoli, ma dall’apparenza psicofisica di Antonio – il suo corpo parla o forse lui parla attraverso il suo corpo. Né sfibrato, né invecchiato, manifesta un perfetto equilibrio emotivo, una armonia. Atanasio caratterizza questo stato come “purezza dello spirito” o essere “governato dalla ragione, nella sua condizione naturale”. Da questo risulta che gli anni dell’ascesi dovevano essere un cammino di purificazione per raggiungere la purezza (prima non posseduta a causa di qualche impurità) o anche il raggiungimento di qualche condizione naturale (persa o dimenticata che faceva si che l’uomo vivesse non nella sua natura ma in qualche modo fuori di sé). Antonio, una volta raggiunto questo stato interiore, incomincia testimoniare la possibilità di vivere e di sperimentare un tale stato, e con ciò inizia il suo influsso sugli altri:
Il Signore, per opera sua (cioè di Antonio), guarì molti dei presenti che pativano nel loro corpo e liberò altri dai demoni. Il Signore concedeva ad Antonio il dono della parola e così consolava molti che erano in lite e a tutti ripeteva che nulla di quanto è nel mondo deve essere anteposto all’amore per Cristo. Parlando e ricordando i beni futuri e l’amore che ha mostrato per noi uomini il Dio che non risparmiò il proprio figlio, ma lo offrì per tutti noi, convinse molti ad abbracciare la vita solitaria. E così apparvero dei monasteri sui monti e il deserto divenne una città abitata da monaci che avevano abbandonato i loro beni e avevano scritto il loro nome nella cittadinanza del cielo. (San Atanasio, Vita di Antonio, 14).
Dio aveva data (Antonio) all’Egitto come medico. Chi andò a lui nel dolore e non tornò nella gioia? Chi andò da lui piangendo i suoi morti e non depose subito il suo lutto? Chi andò da lui nella collera e non si convertì a sentimenti di amore? Chi, afflitto per la sua povertà, venne a trovare Antonio e nell’udire le sue parole e al vederlo non disprezzò la ricchezza e non trovò conforto nella sua povertà? Quale monaco scoraggiato andò da lui e non divenne più saldo? Quale giovane salì alla montagna e, vedendo Antonio, non rinunciò subito ai piaceri e non amò subito la temperanza? Quando mai andò da lui qualcuno tormentato dal demonio e non ne fu liberato? E chi andò da lui tormentato dai pensieri e non trovò la pace della mente? Vi era questo grande nell’ascesi di Antonio, che, come ho detto in precedenza, grazie al dono del discernimento degli spiriti, ne sapeva riconoscere i movimenti e non ignorava le inclinazioni e le preferenze di ciascuno. (San Atanasio, Vita di Antonio, 87-88).
Gli elementi che caratterizzano il suo irraggiamento, cioè il modo di Antonio di essere maestro sono i seguenti: l’insegnamento attraverso la parola in cui Gesù Cristo è punto centrale, salvezza (guarigione), insegnamento, guarigioni da diversi disturbi interiori con cui la gente veniva ad Antonio, consolazione, incoraggiamento grazie al posseduto dono del discernimento degli spiriti, l’avere discepoli, seguaci o imitatori.
Gregorio Magno (+607)
Si può parlare nel cristianesimo di una teologia del maestro. In questo caso teologia (una parola di significato assai molteplice) vuol dire sistema, una visione di insieme della realtà in cui il concetto di maestro appare come elemento essenziale del sistema stesso. Si potrebbe parlare anche di una metafora dell’intera realtà con la figura di maestro al centro. Tali sistemi teologici possono essere diversi. Qui ci soffermiamo soltanto su uno di loro, descritto alla fine del sesto secolo dal vescovo di Roma, papa Gregorio Magno nel quarto libro dei suoi Dialoghi (un bestseller del mondo occidentale latino dell’epoca tardo antica e medievale). Gregorio scrive:
Perciò tutti gli uomini carnali non essendo in grado di conoscere per esperienza quelle realtà invisibili, mettono in dubbio la loro esistenza, proprio perché non le vedono con gli occhi del corpo. Questo, però, è un dubbio che non poté avere il progenitore degli uomini, perché, pur essendo escluso dalle gioie del paradiso, conservava nella memoria il ricordo di ciò che aveva perduto, per averlo visto. Invece coloro che vivono nella carne non possono né percepire né custodire nella memoria quello di cui hanno sentito parlare, poiché, a differenza di lui, non hanno alcuna esperienza, neppure relativa al passato.
È come se una donna incinta fosse messa in carcere e là partorisse un bambino, e questo venisse nutrito e crescesse nella prigione. Anche se sua madre gli parlasse del sole, della luna, delle stelle, dei monti e delle pianure, degli uccelli che volano e dei cavalli che corrono, il bimbo, nato e cresciuto in carcere, nulla altro conoscerebbe che le tenebre di quel luogo. Perciò, pur sentendo parlare di tali cose, non avendole conosciute per diretta esperienza, dubiterebbe che esistono realmente. Allo stesso modo gli uomini, nati in questa cecità del loro esilio, sentendo dire che ci sono beni sommi ed invisibili, ne mettono in dubbio la reale esistenza, perché hanno conosciuto soltanto quelle povere ed effimere realtà visibili in mezzo alle quali sono nati.
Ecco perché il Creatore delle cose invisibili e di quelle visibili, il Figlio Unigenito del Padre, è venuto a redimere l’umanità ed ha effuso nei nostri cuori lo Spirito santo: perché, da lui vivificati, credessimo a quelle realtà che ora non possiamo sperimentalmente conoscere. Quanti, dunque, abbiamo ricevuto lo Spirito caparra della nostra eredità, abbiamo la certezza della esistenza degli esseri invisibili.
Chiunque però non è ancora saldo in questa convinzione, è moralmente obbligato a prestar fede alle parole degli antichi (lat. maiores) e a credere loro, perché essi, per dono dello Spirito santo, hanno già una qualche esperienza dell’invisibile. Sarebbe infatti stolto il bambino, se pensasse che sua madre mente quando parla della luce, solo perché egli personalmente non conosce altro che tenebre del carcere. (Gregorio Magno, Dialoghi IV,I,2-5)
Nel sottofondo di questo testo giace un sottile riferimento alla caverna di Platone che schiude un dramma dell’esistenza umana: si vive senza vedere e conoscere quel che bisogna conoscere. Gregorio la chiama situazione di esilio e cecità. Un ruolo importante nella sua spiegazione gioca la categoria del vedere – non si vede il paradiso da cui si è allontanati, non si vede quello che si trova oltre le mura della prigione. Tutte queste sono analogie perché in realtà si tratta di non conoscere e non vedere l’invisibile, lo spirituale, che sta oltre quel visibile materiale a cui dà un senso. Normalmente l’invisibile dovrebbe essere un dominante della vita umana, qualcosa che si sperimenta e che si ricorda. Ma il dramma sta nel fatto che per qualche ragione (non spiegata nel testo) questo sperimentare e ricordare sono venute meno per cui la dimensione spirituale, invisibile ha cessato di essere dominante. In tale contesto entra la persona di Gesù Cristo la cui missione era di redimere l’ umanità (cioè riprenderla dalla prigione e dalla lontananza dal paradiso perduto) e dare ad essa lo Spirito perché creda nelle realtà spirituali e abbia certezza della loro esistenza. Sembra però che questa opera redentrice, se non fallita, rimanga almeno per certi versi non compiuta perché ancora ci sono persone che non possiedono una ferma convinzione dell’esistenza delle realtà invisibili. A questo punto entrano sulla scena “i maestri” chiamati da Gregorio “maiores” che possiedono l’esperienza delle realtà invisibili e perciò anche una autorità e credibilità nei confronti degli altri e possono svolgere il ruolo di guida o essere punti di riferimento. I maestri – in questo quadro gregoriano – appaiono nell’orizzonte tenebroso in cui giace tutta l’ umanità, come luci del ricordo e della presenza delle realtà invisibili. Servono da mediatori, tra l’ umanità e le realtà invisibili, sono mandati da Dio.
Questo tipo di pensiero riguardo alla figura del maestro – che include una visione di non-maestri a confronto – è stato molto diffuso nel mondo cristiano. E pur essendo assai chiaro e affascinante presenta alcune esitazioni o almeno fa emergere alcune domande. Perché le realtà invisibili, pur essendo così essenziali, non si presentano e non si impongono con una forza convincente nei cuori degli uomini? Perché, nonostante l’opera redentrice del Salvatore Gesù Cristo, ci sono ancora uomini che non conoscono, attraverso una esperienza diretta, le realtà invisibili? Perché lo Spirito dato dal Redentore, mandato dal Padre e creatore, non è per tutti motivo di certezza delle realtà invisibili? Perché tra gli uomini c’è chi ha esperienza dell’invisibile e chi no? Questi “maiores” possono “dare” agli altri l’esperienza dell’invisibile, cioè offrono qualcosa a coloro a cui è mancato o semplicemente risvegliano nei cuori altrui qualcosa di già presente ma dimenticato? Insomma, la figura del maestro in questa prospettiva, appare segnata da qualcosa di grandioso e importante, ma in un dramma, circondato da numerose domande di non poco peso.
Simeone il Nuovo Teologo (+1022)
Simeone il Nuovo Teologo è spesso considerato e visto come uno dei maggiori mistici del cristianesimo. Visse nel contesto della cultura bizantina e fu della corrente orientale del cristianesimo; monaco, riformatore, autore di numerosi testi teologici di notevole importanza, persino poeta. Frequentando i suoi testi si viene colpiti sia dallo spessore mistico della immediata e profonda esperienza di Dio (dimensione ovvia per un mistico), sia dalla necessità che rivela di avere una guida, un maestro, una mediazione o un mediatore in questo cammino. In Simeone (come in tanti altri) si legge una tensione tra il desiderio dell’immediata l’esperienza di Dio e la necessaria mediazione di un maestro. In molti dei suoi testi sono descritte le caratteristiche del maestro e le regole di comportamento di un discepolo. La figura del maestro è molto elevata: il maestro è quasi un’ incarnazione o un rappresentante di Cristo, è un’autorità assoluta e indispensabile, il rapporto con lui è esclusivo e richiede un’ obbedienza “cieca”. Solo come esempio si possono leggere testi come:
Chi ha acquistato una limpida fede nel suo padre secondo Dio, vedendolo pensa di vedere Cristo stesso e, stando con lui e seguendolo, crede fermamente di stare insieme con Cristo e di seguirlo. Una tale uomo non desidera di conversare con altro, non preferirà alcuna delle cose del mondo al ricordo e insieme all’amore di lui. Che cosa è di più grande nella vita presente e nella futura che essere con Cristo? Quale cosa più bella o più dolce della sua vita? E se si è anche fatti degni della sua conversazione, da essa si attinge certamente la vita eterna. (Simeone il Nuovo Teologo, Capitoli pratici e teologici, 19, in Filocalia 3, 352).
Dal momento in cui ti sei rimesso interamente al tuo padre spirituale, sii estraneo a tutto ciò verso cui sei portato, all’esterno: agli uomini, intendo, agli affari e alle ricchezze. Senza di lui non voler fare assolutamente nulla, riguardo a ciò, non chiedergli nulla, di piccolo o di grande, se lui non ti ordinerà di prendere di sua propria iniziativa, o sia lui stesso a dirtelo di sua mano. (Simeone il Nuovo Teologo, Capitoli pratici e teologici, 15, in Filocalia 3, 352).
Simeone il Nuovo Teologo nella sua giovinezza ebbe un maestro di nome Simeone (poi denominato “il Pio”). Simeone il Nuovo Teologo fu molto legato e dipendente da lui e il fatto fu notato nell’ambiente monastico in cui viveva (il monastero di Studio a Costantinopoli). Alla morte del maestro, Simeone il Nuovo Teologo cercò di promuoverne una certa forma di culto suscitando reazioni contrarie nella capitale. In seguito Simeone stesso divenne capo di un altro monastero nella capitale dell’Impero, e il modo di governare o presiedere sembra abbia riscosso un certo successo. Da tutto questo però si possono trarre alcune conclusioni che riguardano la questione del maestro: 1. sicuramente nel caso di Simeone, giovane, vi è la ricerca di una figura paterna (campo assai interessante per un psicologo); 2. certamente un numero notevole dei suoi testi che riguardano la questione del maestro provengono da questo periodo giovanile e non dovrebbero essere presi come indicazioni assolute per tutti e per sempre (cosa che purtroppo è successa).
Esiste poi un'altra dimensione che bisogna prendere in considerazione parlando della figura del maestro in Simeone il Nuovo Teologo – è una dimensione con risvolto sia storico che sociologico. Storicamente Simeone appartiene ad un periodo di transizione in cui il modello teocratico dell’Impero bizantino vive le suo difficoltà. Nella massiccia struttura piramidale di questo Impero, l’Imperatore è un rappresentante di Dio o persino un “Dio sulla terra” da cui tutto proviene e tutto dipende – anche la vita della chiesa e la salvezza dei suoi cittadini. Ma nell’epoca di Simeone tutto questo non funziona più: l’Imperatore con la sua burocrazia e l’esercito non riescono più a garantire l’unità e la prosperità dell’Impero. E d’altra parte nelle menti delle persone l’ideale teocratico scade– forse sarebbe troppo dire che nessuno crede più, ma sicuramente la gente ha dubbi riguardo all’intero sistema di governo e di modello sociale. Così appaiono le famiglie nobili che desiderano introdurre un sistema oligarchico per sanare la situazione. E’ un movimento decentralizzante – si desidera passare da un Imperatore ad un gruppo
Simeone appartiene ad una di tali famiglie ed è fortemente coinvolto nei suoi affari politici (purtroppo non tutti gli studiosi della sua mistica ne sono consci). Alle questioni socio-politiche aggiunge anche le sue inclinazioni che si potrebbe definire teologiche e mistiche. Simeone, conscio che il sistema teocratico dell’Impero non funziona più e assai critico anche riguardo alla gerarchia ecclesiale (spesso compromettente, dipendente dall’Imperatore e corrotta), più o meno coscientemente propone la sua idea di maestro o guida. Nella sua visuale proprio i maestri o i padri spirituali, avendo una diretta esperienza di Dio, dovevano prendere in mano il governo dell’Impero! Devono essere loro a guidare e dirigere le persone più nobili che a loro volta governano in modo giusto, retto e spirituale l’intera società.
Simeone appartiene ad una determinata cultura e epoca. Ma un movimento storico analogo che include la figura del maestro nei suoi aspetti teorici e pratici, si osserva anche in altri momenti e luoghi, comunque segnato da una tensione tra un potere centralizzato e uno decentralizzato. Quando, per esempio, in epoca medievale sia il potere ecclesiale (il papato) che civile (i re) sono corrotti, appaiono figure di santi che diventano di riferimento (si pensi per esempio nel mondo occidentale a Francesco d’Assisi o Catarina dai Siena). Mutatis mutandis, nella stessa categoria cadono, nell’epoca degli assolutismi imperiali (si pensa di questo francese o quello spagnolo) dal Seicento in poi, le teorie e la prassi dei “confessori” o dei “padri spirituali” promossi con perspicacia da gesuiti o carmelitani, che “attraverso il confessionale” pretendono, non di rado con un certo successo, di influire sull’andamento della storia degli imperi.
Tali movimenti “spirituali” spesso mettono sotto questione non solo l’origine delle cose del mondo e della società, ma anche guardano con un certo sospetto la gerarchia della chiesa e l’intero ordine sacro costituito da una “necessaria” mediazione di una gerarchia centralizzata, di un culto sacro, di una dottrina ben custodita e sicura. Da qui nasce anche la conflittualità tra un centro governativo (politico o religioso) e una tale maestro illuminato. L’esempio più clamoroso a proposito ci viene da Martin Lutero il protagonista della Riforma, che per certi versi, mette sotto questione qualsiasi mediazione sacra circa la conoscenza di Dio e la salvezza. Per lui ogni persona può (e deve!) avere un diretto contatto con Dio – le guide umane (anche se spirituali) servono poco; bastano la fede e la Scrittura attraverso cui ogni persona trova accesso all’unico Dio. È proprio Lutero e la Riforma che aprono la strada ad un processo di demitizzazione e desacralisazzione del ruolo del maestro nel mondo cristiano.
Maestro interiore Esiste ancora un altro paradosso legato al tema del maestro nel mondo cristiano. Come è possibile scrivere una storia dei maestri ritrovandoli in una catena “quasi” ininterrotta da Gesù fino ai nostri tempi (nonostante forzature interpretative della storia del cristianesimo e della sua spiritualità), così si può sentire parallelamente un grido che cerca maestri e ne testimonia la mancanza. Nella letteratura cristiana, c’è quasi un eco di lamenti del tipo: Non ci sono veri maestri; Dove trovare un maestro? Cercate un maestro, pregate perché appaia. Di fronte a questa situazione si è cercato di rimediare pensando all’idea di un maestro interiore. Le teorie intorno all’argomento sono numerose e svariate. Alcune si sviluppano nella prospettiva di una delusione: se mancano i maestri “esteriori” bisogna accontentarsi di un maestro “interiore”. Altre procedono in una direzione piuttosto “educativa”: avendo o non avendo un maestro, prima o poi bisogna ritrovare o risvegliare un proprio maestro interiore e seguirlo perché così prende valore. Le teorie sul maestro interiore si appoggiano su alcuni testi della Scrittura in cui si parla dello Spirito Santo che abita nei cuori dei credenti e nell’uomo interiore. In questo saggio, a titolo di esempio, si riportano due testimonianze a proposito del maestro interiore: una del mondo del cristianesimo antico e latino di Agostino d’Ippona e l’altra del mondo medievale bizantino e cioè greco di Niceforo l’Esicasta.
Il trattato di Agostino intitolato Il maestro (De magistro) è stato scritto nel 389. La questione fondamentale dello scritto è questa: a che servono gli studi se non perché una persona diventa un uomo vero, cosciente di sé e della verità? Agostino desidera affermare che educarsi, vuol dire riscoprire in sé, con l’aiuto dei valori e dei mezzi educativi, una dimensione interiore e spirituale e rendersi conto che il nostro essere spirituale partecipa di una Sapienza e di una Verità più grande (cioè quella divina). In altre parole, si potrebbe dire che senza nulla togliere all’autorevolezza dell’insegnante che trasmette verbalmente dei contenuti, ci deve essere una riscoperta della dimensione interiore per arrivare allo scopo. Ecco alcuni un brano di questo trattato in qui è mostrata la necessità di una qualità interiore per comprendere la verità:
Sul mondo intelligibile poi non ci poniamo in colloquio con l’individuo che parla all’esterno, ma con la verità che nell’interiorità regge la mente stessa, stimolati al colloquio forse dalle parole. E insegna colui con cui si dialoga, Cristo, di cui è stato detto che abita nell’uomo interiore, cioè l’interamente immutabile potere e sapienza di Dio (cf. Ef 3,16-17 e 1 Cor 1,24). Si pone in colloquio con lui ogni anima ragionevole, ma essa si rivela a ciascuno nei limiti con cui può avene conoscenza secondo la buona o cattiva volontà. E il fatto che può sfuggire non avviene per il difetto della verità con cui si è riportata, come non è difetto della luce sensibile che visita spesso s’inganna. Ma noi dobbiamo ammettere che ci si rapporta alla luce per le cose visibili perché ce le mostri secondo il limite della nostra facoltà (Agostino, Il maestro 38).
In un altro frammento Agostino mostra l’insufficienza di un maestro o insegnante “esteriore” se non è posta di fronte la nozione di maestro interiore:
E chi è così scioccamente amante del sapere da mandare a scuola il proprio figlio perché apprenda ciò che pensa il maestro? Piuttosto, quando hanno esposto con parole tutte le discipline che dichiarano d’insegnare, comprese quelle della morale e della filosofia, allora i così detti discepoli considerano nella loro interiorità se le nozioni sono vere, sforzandosi, cioè d’intuire la verità ideale. Soltanto allora apprendono e quando scopriranno nell’interiorità che le nozioni sono vere, lodano, senza pensare che non lodano i docenti ma i dotti se, tuttavia, anche costoro sanno quel che dicono. S’ingannano dunque gli uomini nel chiamare maestri quelli che non lo sono perché il più delle volte fra il momento del discorso e quello della conoscenza non v’è discontinuità; e poiché dopo l’esposizione dell’insegnante immediatamente apprendono nell’interiorità, suppongono di avere appreso da colui che ha parlato dall’esterno” (Agostino, Il maestro, 45).
In conclusione per Agostino l’uno e l’unico maestro dell’uomo è Dio stesso che abita nei cieli, ma poiché, lui dice, questi cieli “più lontani” si trovano nel “più intimo” dell’uomo, l’interiorità stessa della persona umana è considerata “maestro”. Si percepisce allora lo scatto dialettico, che nei secoli seguenti diventa fondamentale: dal maestro terrestre a Dio stesso come maestro, dal cielo abitato da Dio al cuore umano dove Lui è presente, per arrivare così alla dimensione di una divino maestro interiore. Sulla base di tale ragionamento agiranno poi numerosi i mistici che pretenderanno di essere guidati direttamente da Dio che abita in loro e in seguito parecchi di loro pretenderanno di essere guide per gli altri proprio perché loro stessi sono stati ammaestrati e guidati dal maestro interiore quasi immedesimandosi con lui:
“Non dobbiamo infatti soltanto avere la fede, ma cominciare anche ad avere intelligenza della verità di ciò che per divino magistero è stato scritto, che cioè non dobbiamo considerare nessuno come nostro maestro sulla terra poiché l’unico maestro di tutti è in cielo (cf. Mt 23,8-10). Che cosa significhi poi in cielo ce lo insegnerà quegli, dal quale, per mezzo degli uomini con segni dall’esterno, siamo avvertiti a farci ammaestrare rientrando verso di lui nell’interiorità. Amarlo e conoscerlo è felicità. Tutti gridano di cercarla, pochi si allietano di averla veramente trovata. (…) Se poi non sai che la tesi è vera, non ti ho insegnato né io né lui: io perché non sono capace d’insegnare, lui perché tu non sei ancora capace d’apprendere” (Agostino, Il maestro, 46).
Con il frammento scritto da Niceforo si cambia sia l’epoca sia il contesto in cui il tema del maestro interiore è preso in considerazione. Niceforo visse nel tredicesimo secolo, principalmente sul Monte Athos. Essendo un monaco si dedicò alla vita spirituale con particolare attenzione alla pace o quiete (esichia). Perciò a posteriori è stato chiamato “l’Esicasta”. I tempi in cui visse Niceforo non erano tranquilli e sembra che i contesti che lui frequentava non abbondavano di insegnanti profondi e buoni. Perciò per cercare le vie della saggezza lui si immerse nelle letture dei testi antichi (da Antonio e Simeone il Nuovo Teologo) e scoprì che uno dei temi principali, intorno a cui bisogna costruire la prassi e la teoria della vita è quello dell’attenzione (prosoché). Questa dimensione è tema antico presente negli stoici, in Filone d’Alessandria e poi lungo tutta la tradizione cristiana greca. È un insieme di comportamenti e coscienze: praticando l’attenzione uno deve essere attento a come agisce e come pensa, quali sono i motivi più intimi dei suoi pensieri e sentimenti, deve essere presente a se stesso, alla realtà e persino a Dio. È un concetto assai vicino alla consapevolezza presente nelle tradizioni dell’estremo oriente. Niceforo era convinto che l’attenzione è fondamentale e come tale ha bisogno anche di un maestro, cioè una persona che avvia verso gli spazi della vita interiore; sulle scie dell’attenzione ha bisogno di una guida o di un maestro (hodegòs). Ma sembra che questi non fossero facili da trovare e Niceforo stesso ne era conscio. Questa situazione è stata descritta da lui nel modo seguente:
"Questa condizione sublime (cioè l’attenzione/prosoché) viene raggiunta dai più, se non da tutti, per mezzo dell’insegnamento di un maestro (hodegòs). Pochi, infatti, l’hanno ricevuta da Dio, senza maestro, e grazie alla violenza della loro opera e al fervore della loro fede. Ma l’eccezione non fa la regola. Perciò si deve cercare un maestro infallibile, in modo che apprendiamo dal suo insegnamento le nostre cadute a destra e a sinistra nell’attenzione, i nostri difetti e i nostri eccessi suggeritici dal Maligno. La sua esperienza al riguardo ci illuminerà e ci mostrerà senza alcun dubbio il cammino spirituale e così potremo avanzare senza difficoltà. Se no c’è un maestro, devi cercarlo affannosamente. Se non lo troverai, invoca Dio nella contrizione di spirito e nelle lacrime e, supplicandolo nella povertà, fa’ quello che ti dico” (Niceforo il Solitario, Discorso sulla sobrietà e sulla custodia del cuore, in Filocalia III, 525).
Niceforo considera la mancanza di un maestro come una povertà. Importante però è ciò che propone in cambio. E alla fine propone se stesso come maestro per chi legge i suoi scritti (“fa quello che ti dico”). Questa è la prima constatazione: come per lui la scoperta del tema dell’attenzione avviene attraverso lo studio dei testi antichi, così lui stesso propone – nel caso di mancanza di maestro – il suo testo come una guida, come “maestro”. Sembra questo un tema proficuo, da sviluppare: la storia della lettura concepita come esercizio spirituale nel mondo cristiano – forse ne risulterebbe come conclusione che molto spesso erano proprio i testi (quelli della Scrittura o quelli di altri autori) che giocavano il ruolo di maestri.
Ma poi bisogna passare alla domanda: che cosa Niceforo dice di fare per ottenere lo stato di attenzione? E qui la sorpresa è ancora maggiore. Nel caso di mancanza di un maestro, egli propone di praticare una meditazione in cui sono congiunte: una posizione seduta del corpo, un respiro regolato e rallentato, la ripetizione della frase “Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”. Più tardi questo tipo della meditazione sarà conosciuto sotto il nome di “Preghiera di Gesù” o “Preghiera del cuore”.
A Niceforo però importa il fatto che questo tipo di meditazione può sia sostituire un maestro, sia risvegliare e sviluppare l’atteggiamento dell’attenzione, in tal caso per certi versi funziona come maestro interiore. Importante è da notare che in questo momento – il testo di Niceforo è il più antico in assoluto nel mondo cristiano – un possibile (o proprio impossibile) maestro (hodegòs) è sostituito da “un metodo” (meth-hodos) descritto in un manuale. Questo è ancora un altro dei paradossi che segnano il tema del maestro.
Sacra Scrittura come maestro
Il cristianesimo sostiene che l’incarnazione ossia la presenza di Gesù Cristo (che è considerato come la Parola di Dio incarnata) in qualche modo continua ad essere presente in questo mondo sotto la forma della Santa Scrittura (anche questa chiamata Parola di Dio). Gesù stesso non solo spiegava le Scritture degli Ebrei e le interpretava in un modo nuovo ed originale, ma si comprendeva e così anche è stato visto dagli altri come Uno che incarna in sé le parole della Scrittura. Perciò Lui è stato considerato come una sintesi della Scrittura e come l’interpretazione incarnata, sublime e unica di essa. Da ciò è derivata una convinzione, apparsa molto presto nel cristianesimo, che la giusta conoscenza delle Scritture equivale alla conoscenza di Gesù Cristo. Il legame tra queste due realtà (cioè tra Gesù e le Scritture, tra un Uomo e il Testo) è stato fatto sulle ali dello Spirito: si è capito presto che lo Spirito che ha ispirato le Scritture è lo stesso Spirito che era presente in Gesù. Un passo successivo è stato fatto quando si è sostenuto che anche lo stesso Spirito abita in chi crede in Gesù. Perciò bastava essere nello Spirito o possederlo, per capire in modo giusto le Scritture e scoprire in esse la presenza (misteriosa o nascosta) di Gesù stesso. Però per possedere questo Spirito bisognava praticare la via dei comandamenti, praticare l’ascesi e purificare il cuore di cui ovviamente la stessa Scrittura parla. Prendere famigliarità con le Scritture, vivere secondo esse per conoscere e per unirsi con Gesù divenne una delle strade della spiritualità e della prassi cristiana. Uno degli autori – ce ne sono tanti altri – già citato in questo saggio, Gregorio Magno, così scrive a proposito:
"La Sacra Scrittura si presenta agli occhi della nostra anima come uno specchio, in cui possiamo contemplare il nostro volto interiore. In questo specchio noi possiamo conoscere ciò che in noi c’è di bello e di brutto; possiamo verificare il nostro progresso e quanto siamo lontani dalla metà. La Sacra Scrittura racconta le imprese dei santi e stimola i cuori fiacchi e deboli ad imitarli. E mentre richiama alla memoria le loro azioni virtuose rafforza le nostre deboli membra per affrontare la lotta contro il male. Le sue parole rendono meno trepidante nel combattimento il nostro spirito, che si vede posti di fronte i trionfi di tanti valorosi. Qualche volta poi, non solo ci descrive le loro vittorie, ma ci rende note anche le loro sconfitte, affinché possiamo ricavare dalla vittoria dei forti l’esempio da imitare e vedere nella sconfitta ciò che dobbiamo temere” (Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, II,I,1).
Da tutto questo proviene una complessa e assai interessante relazione che esiste tra un maestro e la Santa Scrittura nel mondo cristiano. Soprattutto un maestro – sulle orme di Gesù – interpreta le Scritture sia con la propria vita sia con il proprio insegnamento. In altre parole non esiste maestro senza riferimento alle Scritture: egli cerca di capirle e di incarnarle nella propria vita; in seguito diventa per gli altri come uno che rispecchia in sé le Scritture (si riconosce maestro in rapporto alle Scritture), diventa per loro una interpretazione o una esegesi viva; per questo anche un maestro commenta le Scritture per gli altri inviandoli sulla via delle Scritture. Bisogna pure affermare che ciò non significa che un maestro sia solo un erudita riempito di informazioni – ma sicuramente è capace di vivere e di conoscere un contenuto delle Scritture che per gli altri spesso non sono ovvie. Il mistero di Dio giace nascosto nelle Scritture, come anche giace nascosto nei cuori. Un maestro è capace di svelare questa presenza.
Il maestro e/o il magistero
Nel mondo cristiano, e in modo particolare nella sua forma cattolica, esiste una dimensione che deve essere presa in considerazione quando si discute il tema del maestro. Questa è, per modo di dire, una dimensione istituzionale e istituzionalizzata del maestro spesso denominata come “il magistero” (dal latino magister, cioè maestro, insegnante). La questione e la stessa istituzione possiedono la propria storia, evoluzione e teologia che fanno parte di un sistema, oggi assai articolato, chiamato ecclesiologia. Per l’uso di questo saggio e semplificando un po’ le cose, ci serviamo di un testo “classico” proveniente dal Catechismo della Chiesa Cattolica pubblicato nel 1992 che nel suo insegnamento a proposito principalmente riprende alcune frasi del Concilio Vaticano Secondo:
"L’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo” (DV 10), cioè ai vescovi in comunione con il successore di Pietro, il vescovo di Roma. Questo “Magistero però non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la scolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio” (DV 10). I fedeli, memori della Parola di Cristo ai sui Apostoli: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16), accolgono con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati, sotto varie forme, dai Pastori (Catechismo della Chiesa Cattolica 1992, 85-87).
Come risulta da questo testo, il magistero, è composto dai vescovi (considerati come i successori degli apostoli) presi insieme con il vescovo di Roma (successore dell’apostolo Pietro). L’interpretazione della Scrittura proposta da tale organo istituzionale è considerata come “magisteriale”, perciò rivestita di verità e di autorità. Nel fondo questo magistero è una istanza “oggettivizzante”, che è anche una cosa propria del sistema ecclesiologico cattolico. Per esempio esiste in questo sistema una dottrina riguardo ai sacramenti che dice che ogni sacramento, se compiuto secondo le prescrizioni del rito, è valido e provoca l’effetto desiderato, aldilà della disposizione “morale” della persona che lo compie (il battesimo può essere eseguito sotto alcune condizioni anche da un non credente). Così il magistero sarebbe una istanza che aldilà dell’esistenza o della mancanza di maestri o interpreti della Parola di Dio offre un insegnamento oggettivo e libero dall’errore.
Il magistero possiede alcune caratteristiche analoghe di maestro. Soprattutto è legato con la Parola, in una particolare spirale dialettica: da una parte offre una interpretazione della Parola di Dio (si capisce che le interpretazioni possono essere tante che il magistero offre questa una, unica giusta) e d’altra parte dipende da questa parola; cioè sta sopra e sotto alla Parola. Va poi notato che il magistero si riferisce ai fedeli della chiesa (intesi come non appartenenti alla gerarchia episcopale presa insieme con il vescovo di Roma) come un maestro ai suoi discepoli. Infine, come nel caso di un maestro, l’autorità di questa istituzione proviene dalla presenza in essa dello Spirito Santo.
Ovviamente tutto questo potrebbe essere (e non di rado è stato) criticato. Ci si potrebbe domandare con quale autorità un magistero si riveste della sua autorità. Si potrebbe esitare se la presenza personale di un maestro potrebbe essere sostituita da un gruppo che per giunta cambia in continuo. Si potrebbero cercare nel passato esempi (non pochi) in cui il magistero si è pronunciato a proposito di qualcosa in modo sbagliato. Si potrebbero elencare proposte teologiche (anche queste assai numerose) che mettono in discussione sia il modo di esercitare questo ufficio, sia che cercano le ermeneutiche che potrebbero interpretare quanto il magistero ha già interpretato. Tutto questo però non cambierebbe il fatto che la realtà e una certa utilità di un magistero all’intero del cattolicesimo rimangono. Per giunta ogni altro sistema ecclesiale (ortodosso o protestante), come anche le religioni non cristiane, possiedono – accanto ai loro maestri – le istituzioni “oggetivizzanti” rivestite di una certa autorità e importanza. Ma alla fine uno si pone pure una domande – nella cui luce anche con una maggiore drammaticità si vede la questione del maestro in genere – perché non tutti sono capaci di essere maestri (così i maestri potrebbero sparire) e perché poi i maestri sono tanto rari e tanto deboli al punto che talvolta occorre una istituzione per sostituirli.
Esteriorità di una interiorità ossia la presenza di un maestro
Proprio sul versante opposto di una dimensione istituzionale e istituzionalizzata del maestro si colloca la dimensione della presenza proprio corporea di un maestro. È una cosa una e unica, non sostituibile e non riducibile. Un maestro non solo parla, scrive, insegna con le parole, non solo compie le gesta più o meno miracolose o indicative, ma anche irraggia un’aria: colpisce per come è, come si muove, come guarda. Per questo non solo si cerca il suo insegnamento, ma anche la sua presenza, il calore spirituale che scalda gli altri che imparano qualcosa attraverso questo contatto, chiamiamolo pure, “corporeo”. Ecco, come la cosa è descritta da uno dei detti legato con la figura di Antonio d’Egitto:
Tre padri avevano l’abitudine di recarsi ogni anno dal beato Antonio. Due di loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell’anima; uno, invece, taceva sempre e non chiedeva nulla. Dopo molto tempo abba Antonio gli disse: “Da tanto tempo vieni qui e non mi chiedi niente!” E quello gli rispose: “Mi basta soltanto vederti, padre” (Apophtegmata patrum, Antonio 27).
Un altro esempio è la descrizione o piuttosto la testimonianza di uno che ha visto ed è stato colpito da “qualcosa” che ha notato nel contatto con un monaco proveniente dall’Ucraina, ma poi vissuto in Romania del diciottesimo secolo di nome Paisij Velickovskij:
"Con i miei occhi vidi la stessa virtù materializzata, un uomo libero dalle passioni e assolutamente trasparente. La sua figura mi appariva dolcissima, e il suo viso bianchissimo, come esangue. La sua barba era tutta bianca e luccicante, pulitissima. Era molto dolce nel conversare, senza alcuna finzione. Lo si sarebbe detto un uomo senza corpo” (Costantino Karaghias).
Questo frammento coglie bene il mistero e le dinamiche paradossali della presenza di un maestro. Da una parte si nota e si dice che in lui c’è qualcosa di incorporeo (“un uomo senza corpo”), ma d’altra parte tutta la descrizione è dedicata al suo aspetto esterno: viso bianchissimo, barba lucente, atteggiamento dolce, libero e spassionato nella gestualità e nelle espressioni. La dimensione corporea non sparisce (non può), ma diventa un veicolo della comunicazione di qualcosa che sembra essere oltre corporeo. È una bellezza, una trasfigurazione, una divinizzazione. Le teorie (o le teologie) che cercavano di spiegare questo fenomeno sono svariate. Ne prendiamo una, solo a titolo di esempio, che proviene da un autore del sesto/settimo secolo molto letto e apprezzato lungo i secoli, Giovanni Climaco:
L’esicasta è colui che gareggia per circoscrivere – cosa mirabile – l’incorporeo in una dimora corporea (Giovanni Climaco, citato da Niceforo l’Esicasta, Filocalia III, 521).
L’esicasta in questo caso è un maestro, uno santo o saggio. E tutto il processo della vita di un tale uomo sta nell’ includere, circoscrivere nel suo corpo, l’incorporeo, che in questo caso significa qualcosa di divino. Certi poi diranno che questa dimensione deve essere conquistata attraverso la via dell’ascesi e del dono gratuito di Dio stesso (la grazia), altri punteranno sul fatto che questa dimensione dimora da sempre nell’uomo e lo scopo della vita e di tutte le prassi ascetiche sta nel fatto di liberarla, renderla attiva. Insomma quando questo succede in una persona avviene un cambiamento interiore ed esteriore che si nota, si esteriorizza e si dilata – così poi tutto ciò che fa è radicato in segnato da questa dimensione “spirituale” da cui poi parte il suo insegnamento e il suo irraggiamento come maestro.
Presenze discrete
I tempi recenti sono difficili da leggere. A proposito del tema di maestro anche il mondo cristiano vive le sue difficoltà e i suoi paradossi. Da una parte si nota, come sempre, una forte mancanza di maestri. Sergio Quinzio già 25 anni fa ha scritto a proposito: “Non esistono più maestri, chi è nella condizione di dire qualcosa non può dire ormai che parole chiuse nell’orrore, non più parole d’insegnamento” (Sergio Quinzio, Dalla gola del leone, Adelphi, Milano 1980, 72). E questa è una voce assai veritiera che dice che non di rado i cristiani stessi cercano le loro guide oltre i recinti delle istituzioni ecclesiali. Perché l’altra faccia della medaglia di tutta questa carenza è che più mancano maestri, tanto più sono richiesti. Rimane aperta la domanda, se questa situazione sia del tutto particolare per i nostri tempi o forse, non sapendolo, ci inseriamo dentro un lamento perenne che ripete: i maestri non ci sono e va di peggio in peggio.
Ovviamente non mancano le soluzioni “kitch” – le figure mediocri lanciate dai mezzi di comunicazioni o quelle che si auto-propongono. Ma di solito durano poco, uno sostituisce l’altro e nell’insieme sono di tendenza idolatra. Spesso illudono e si pensa possano essere fari che conducono alla luce della saggezza, ma alla fine si scopre che dopo di loro rimane solo un vuoto logorante ancor più grande di prima.
È però un dato di fatto che oggi sono pochi, tra quelli che si rendono veramente conto del peso della responsabilità, quelli che riuscirebbero o vorrebbero essere chiamati maestri. Forse la frammentazione del mondo, forse la complessità dei processi storici e culturali di cui oggi ci si rende conto sempre di più, forse le scoperte delle scienze umanistiche – forse tutto questo messo insieme, crea una difficoltà di “farsi” o di “lasciarsi fare” maestro. Nel mondo cristiano, in modo particolare questo occidentale, il problema si riflette anche nel fatto che si cessa di parlare di direzione o di guida spirituale (le espressioni ormai classiche della tradizione) e si inizia a parlare di accompagnamento (cf. i libri di A. Louf). Il “maestro” allora non tanto guida e rivela, ma accompagna e cerca insieme con il “discepolo”. Dietro questo atteggiamento sta il “principio dialogico” che crede nella verità che si trova in mezzo alle persone piuttosto a quella che potrebbe scendere dal cielo. Spesso allora “un maestro” non vuole essere maestro, anche se in fin dei conti lo è, e non dice: “lo so” o “fai così e così”, ma si esprime con “forse”, “se vuoi”, “proviamo”, ecc. Sono i cambiamenti sottili del linguaggio, ma rivelano sicuramente uno spostamento di fondo che non dovrebbe essere scontato.
Seguendo questa traccia si potrebbe indicare ancora una dimensione, una riflessione, a proposito del maestro nell’epoca contemporanea (che forse è anche una dimensione perenne); si potrebbe chiamarla “maestro nascosto” o “inconsapevole”. Per certi versi questo concetto è stato indicato nel poema di Milosz:
Canzone sulla fine del mondo (Ocalenie (1945) in Cz. Miłosz, Poesie, a cura di P. Marchesani, Biblioteca Adelphi 127, Milano 20003, 35).
Il giorno della fine del mondo
L’ape gira sul fiore del nasturzio,
Il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri delfini,
Giovani passeri si appoggiano alle grondaie
E il serpente ha pelle dorata che ci si aspetta.
Il giorno della fine del mondo
Le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,
L’ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,
I fruttivendoli gridano in strada
E la barca della vela gialla si accosta all’isola,
Il suono del violino si prolunga nell’aria
E disserra la notte stellata.
E chi si aspettava folgori e lampi
Rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
Non crede che già stia avvenendo.
Finché il sole e la luna sono su in alto,
Finché nascono rosei bambini,
Nessuno crede che già stia avvenendo.
Solo un vecchio canuto, che sarebbe un profeta,
Ma profeta non è, perché ha altro da fare,
Dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo.
In questo poema “un vecchio canuto” è insieme segno di disperazione e di speranza a proposito della figura di maestro, è paradossale. Perché da una parte questo vecchio non è un profeta (cioè maestro) o perché non vuole esserlo, o forse perché non ha per chi esserlo? Ma d’altra parte lui è sempre un profeta (un maestro) che pur non essendo visto dagli altri o conscio del suo “ruolo” insegna. Chi coglie il suo gesto, chi capta il suo sguardo, che sente la sua voce – forse sarà istruito (senza che il maestro si renda conto di tutto ciò). In tal caso il mondo sarebbe seminato da tali maestri – basta che i discepoli aprono gli occhi e si mettano alla ricerca della verità che abita nello spirito, che non si sa da dove provenga e dove vada, però passa per di qua.
© Maciej Bielawski (2004)
Il testo è stato pubblicato in:
Michele Colafato (ed.), Maestri. Leadership spirituali: vie, modelli, metodi, Franco Angeli Editore, 2006, pp. 55-74.
Di fronte ai maestri esistenti del suo tempo e nel suo contesto si esprime e si comporta in modo critico, esplicitamente accusandoli di falsità, d’ipocrisia e di vuoto interiore:
Sulla cattedra di Mosé si sono assisi gli scribi e i farisei. Fate e osservate ciò che vi dicono, ma non quello che fanno. Poiché dicono, ma non fanno. Legano infatti pesi opprimenti, difficili a portarsi, e li impongono sulle spalle degli uomini; ma essi non li vogliono rimuovere neppure con un dito. Fanno tutto per essere visti dagli uomini. Infatti fanno sempre più larghe le loro filatterie e più lunghe le frange; amano i primi posti nei conviti e le prime file nelle sinagoghe; amano essere salutati nelle piazze ed essere chiamati dalla gente rabbi. Ma voi non vi fate chiamare rabbi, poiché uno solo è fra voi il Maestro (ho didàskalos) e tutti voi siete fratelli. Nessuno chiamerete sulla terra vostro padre, poiché uno solo è il vostro Padre, quello celeste. Non vi farete chiamare precettori (ho kathegemòn – duce, capo, guida), poiché uno solo è il vostro precettore, il Cristo. Chi è il maggiore fra voi sarà vostro servitore. Chi si esalterà sarà umiliato, e chi si umilierà sarà esaltato” (Mt 23,2-12). In altri momenti ammoniva i suoi discepoli di essere attenti di fronte ai possibili falsi profeti o insegnanti (Mt 6,15-20).
Accanto a questi tratti di Gesù come maestro, che sono comuni per tanti altri maestri, si possono anche notare alcune sue caratteristiche particolari. In quanto Gesù insegna e si presenta come un esempio da seguire, alla fine sembra che non tanto importi né il suo insegnamento né il suo esempio, quanto piuttosto la sua presenza. Per certi versi, nella visuale di Gesù non tanto importa mettersi in contatto con la sua meastrà, ma scoprire e toccare la sua presenza che in qualche modo va oltre l’uso hic et nunc. Gesù, quasi volesse che i discepoli scoprano qualcosa di più grande che si trova oltre di lui e d’altra parte riescano a trovarlo in tutto, dice per esempio: “Chi accoglie voi accoglie me e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta in quanto profeta, riceverà la ricompensa di un profeta. Chi accoglie un giusto in quanto giusto, riceverà la ricompensa di un giusto. Chi avrà dissetato anche con un solo bicchiere d'acqua fresca uno di questi piccoli, in quanto discepolo, in verità vi dico: non perderà la sua ricompensa” (Mt 10,40-42). In modo tanto bello quanto paradossale Gesù allarga la sua presenza sia ai bambini (cf. Mt 18, 5), sia ai poveri (cf. Mt 25, 31-46). Con questo Gesù si presenta come un maestro originale: è tanto necessario quanto sostituibile da un bambino o da un poveraccio, scompare per rimanere e rimanendo richiede ai discepoli di andare oltre lui stesso.
Con la sua vita e con il suo insegnamento Gesù schiude, tra l’altro, un aspetto sulla realtà del maestro nel cristianesimo veramente paradossale e cioè il fatto che nonostante l’impedimento di Gesù di non avere altri maestri, il cristianesimo ne era ed è pieno; perché? Questo fenomeno da una parte può essere visto “negativamente”: in assenza di Gesù, altri continuano la sua via e proponendoLo, di fatti propongono loro stessi (Gesù ha detto ma io vi dico…). D’altra parte se ne può scoprire un senso “positivo” attraverso una teologia “presenzionista” e “spirituale” (o spiritualizzata): i cristiani credono non solo che lo Spirito di Dio era in Gesù, ma anche che nello stesso Spirito presente nel mondo in qualche modo sempre dimora ed è presente Gesù Cristo. Questa realtà può essere osservata in modo chiaro e clamoroso nella persona e nell’insegnamento di Paolo di Tarso, chiamato anche l’Apostolo della nazioni.
Paolo di Tarso
L’epistolario di Paolo di Tarso ha avuto un ruolo importantissimo in tantissime dimensioni del cristianesimo, anche in questo legato con il tema di maestro. Paolo non solo agisce da maestro, ma è anche uno di quelli che sviluppano un’intera dottrina a proposito (cioè che cosa vuol dire e come si è “maestro” – pur paradossalmente rimanendo discepolo di Cristo – in cristianesimo). Per vedere almeno alcuni aspetti del suo insegnamento a proposito sono stati scelti i due frammenti dalle sue lettere ai Corinzi.
(a) Anch'io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Mi ero proposto di non sapere altro in mezzo a voi che Gesù Cristo, e lui crocifisso. E fui in mezzo a voi nella debolezza e con molto timore e tremore; e la mia parola e il mio messaggio non ebbero discorsi persuasivi di sapienza, ma conferma di Spirito e di potenza, affinché la vostra fede non si basi su una sapienza umana, ma sulla potenza di Dio. Annunziamo, sé, una sapienza a quelli che sono perfetti, ma una sapienza non di questo mondo, né dei principi di questo mondo che vengono annientati; annunziamo una sapienza divina, avvolta nel mistero, che fu a lungo nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei tempi per la nostra gloria. Nessuno dei principi di questo mondo l'ha conosciuta; se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: Cosa che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo, ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano. Ma a noi l'ha rivelato mediante lo Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi mai conobbe i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così pure i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. E noi abbiamo ricevuto non lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, per conoscere i doni che egli ci ha elargito. E questi noi li annunziamo, non con insegnamenti di sapienza umana, ma con insegnamenti dello Spirito, esponendo cose spirituali a persone spirituali. L'uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne giudica solo per mezzo dello Spirito. L'uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. Chi, infatti, conobbe la mente del Signore da poterlo dirigere? Ora noi abbiamo la mente di Cristo (1 Cor 2,1-16).
Paolo si presenta soprattutto come uno che parla e presenta Gesù Cristo, perché è convinto di conoscerLo. Il suo è un tipico tratto dei maestri cristiani di tutti i tempi: sempre convinti di insegnare agli altri su Gesù Cristo, con il desiderio di portarli alla conoscenza (spesso chiamata anche fede) in Lui. Questo tratto che potrebbe essere chiamato “cristocentrico”, non è però libero da un certo paradosso chiaramente riconoscibile già nella persona di Paolo. Il paradosso sta nel fatto che Paolo non ha mai conosciuto Gesù (così detto storico). Per giustificare o spiegare (e spiegarsi) questo paradosso Paolo – e poi tutti gli altri – elabora una dottrina sullo Spirito Santo che potrebbe essere spiegata così: durante la vita di Gesù lo Spirito di Dio era presente ed operava in Lui, ma dopo la sua risurrezione questo Spirito è stato dato ad altri e ora questo Gesù opera invisibilmente dal di dentro di questo Spirito. Perciò Paolo si è abituato a parlare di/in una cristologia pneumatologica (lo Spirito presente in Gesù durante la sua vita) e di/in una pneumatologia cristologica (Gesù Cristo è presente in ogni azione dello Spirito). Questo inter-agire tra Gesù e lo Spirito, sperimentato dai credenti, perché strano e non visibile spesso è chiamato “mistero”. Paolo agisce come maestro e costruisce la sua dottrina sul maestro proprio dall’interno di questo mistero, per questa ragione può anche essere chiamato “l’uomo spirituale”.
L’insegnamento sullo Spirito di Dio in Paolo, se si pensa bene, è sorprendente: di fatti lui dice che lo stesso Spirito, che è presente e costituisce la parte più profonda di Dio in qualche modo è presente e costituisce anche la parte più profonda dell’uomo. La scoperta di questa presenza e il lasciarsi guidare da essa, dà a Paolo la forza vitale e il coraggio nell’insegnamento. Appoggiandosi su questa forza interiore Paolo parla – questo è ancora un tratto caratteristico del maestro cristiano: il parlare. Cosciente della “povertà della parola” è nello stesso tempo convinto della sua incredibile forza. Anche in questo caso si ha a che fare con una dottrina spirituale: le parole nascono dallo Spirito di Dio che abita nell’uomo, diventano un veicolo con il quale lo Spirito si comunica, per far nascere (o scoprire) nelle persone, che ascoltano le parole dell’insegnante, la presenza di questo Spirito intessuto dalla presenza di Cristo.
Paolo poi, pur negando la sua retorica (un altro paradosso), si serve ampiamente dell’arte di parlare (e scrivere) di cui è assai dotato: mezzi “mondani”, ma l’Apostolo è convinto che il suo insegnamento sia ben diverso da tutte le altre dottrine di questo mondo. Egli considerava tutte le altre forme di sapienza vane rispetto al suo predicare di Gesù crocifisso.
(b) Mi sembra in realtà che Dio abbia messo noi, apostoli, all'ultimo posto, come dei condannati a morte, poiché siamo stati resi spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a motivo di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; noi disprezzati, voi onorati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo erranti e fatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; fino al presente siamo divenuti come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti! Non per farvi arrossire vi scrivo questo, ma per ammonirvi, come miei figli carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi (paidagogoùs) in Cristo, ma non certo molti padri (patéras); io invece vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo. Vi esorto, dunque, fatevi miei imitatori (mimetaì mou gìnesthe)! (1 Cor 4,9-16)
L’insegnante dà credibilità alle sue parole con la propria vita e Paolo ne è un esempio. Per poter insegnare e proprio per quello che insegnava, Paolo ha sofferto incomprensioni, persecuzioni e alla fine la morte. Egli lega conoscenza e verità con la testimonianza: il testimoniare la verità con la propria vita rende la verità leggibile agli altri ma anche consente al maestro che la trasmette, di approfondirne il contenuto. Perciò in Paolo si trovano anche alcune tracce per una dottrina sul progresso spirituale, cioè i passi di una vita cristiana che possiede un suo inizio, un suo periodo di crescita, una sua maturazione. Una persona iniziando il cammino non sa dove arriverà: Paolo che cadeva nei pressi di Damasco di fronte ad una luce e alla voce di Cristo non sapeva che l’evento lo avrebbe condotto un giorno alla decapitazione a Roma.
Nel frammento sopra presentato si colgono anche i semi della futura dottrina sulla paternità spirituale così ampiamente diffusa nel cristianesimo. L’adesione a Cristo verso una piena fede in Lui è come una nascita e chi la promuove può giustamente essere chiamato padre. Va notato che Paolo non si paragona ad un pedagogo che significa accompagnatore (originariamente e letteralmente uno che porta i bambini lungo la strada a scuola) di un processo di crescita, ma al padre che sta alle origini di una vita stessa – e questo padre deve e può essere solo uno. A questo punto si può fare una domanda: in quale misura una tale mediazione umana è indispensabile, in quale misura l’uomo può pretendere si essere un padre spirituale e come questo si lega con il divieto fatto da Gesù stesso di non chiamare in questa terra nessuno con nome di padre, perché esiste soltanto uno, unico, Padre, cioè colui che sta nei cieli.
Un terzo elemento da sottolineare ai margini di questo testo è la dottrina sull’imitazione (mimesis) – un tema tanto presente nel cristianesimo e profondamente legato con il tema di maestro. Uno dei libri più letti nella tradizione cristiana occidentale è la Imitazione di Cristo di Tomaso à Kempis, anche se Gesù stesso raccomandava di seguirlo piuttosto che di imitarlo. Imitazione è fortemente legata con visibilità: si imita uno che si vede. D’altra parte nel caso di un maestro cristiano dovrebbe essere visto in lui qualcosa di Cristo – come se lo Spirito che abita in lui scavasse qualcosa nel suo corpo e nel suo volto che agli occhi dei discepoli potrebbe essere chiaramente riconosciuto come “cristico”. Si ricorda che l’imitazione è molto diffusa nel cristianesimo: alle origini del francescanesimo alcuni frati tentavano persino di imitare Francesco nel modo in cui camminava; da qui poi proviene la voglia di imitarne il vestito, la capellatura e altri comportamenti del maestro. Ed fu Paolo di Tarso il primo a presentarsi come maestro da imitare.
Antonio il Grande
Antonio il Grande (251-356), chiamato anche l’Abate o dell’Egitto, è una delle figure più eminenti del mondo cristiano. Con lui si è aperta una nuova via dell’ideale cristiano – quelle ascetica e monastica. Antonio di fatti non era né un predicatore (come san Paolo), né un martire o un confessore per la fede, ma un asceta e come tale si presenta come uno dei primi (se non proprio il primo) maestri di stampo ascetico che ha dominato il mondo cristiano fino ai tempi recenti.
Come Gesù si conosce principalmente attraverso i vangeli, così Antonio è conosciuto principalmente attraverso la sua biografia scritta dal vescovo Atanasio d’Alessandria (295-373). Atanasio ha conosciuto direttamente Antonio ed ha scritto la sua vita subito dopo la morte del monaco. Questo testo diventò un “classico” e la figura di Antonio, almeno come è stata descritta da Atanasio, si affermò nel mondo cristiano di tutti i tempi e di tutte le culture. Sulla base della Vita di Antonio si possono osservare alcuni punti salienti che caratterizzano un maestro come: l’origine della chiamata, le tappe della vita e l’irraggiamento.
La prima cosa che veramente colpisce nel caso di Antonio è la sua lunga e lenta crescita. Orfano all’ età di circa 20 anni, ben presto intraprese la via dell’ascesi (rinuncia dei beni, digiuno, veglia, preghiera, opere di misericordia, solitudine, ecc.) che praticò per circa 35 anni. Soltanto dopo questo periodo si può parlare dell’irraggiamento di Antonio come maestro (insegnamento, miracoli, formazione dei discepoli, interventi nella vita pubblica). Antonio morì, riconosciuto come “padre d’Egitto” all’ età di 104 anni. Già da questo breve percorso cronologico si possono trarre almeno tre importanti conclusioni riguardo a lui come maestro: (1) Antonio intraprende la vita dell’ascesi non per diventare maestro ma per consolarsi e per salvarsi e il suo essere maestro deriva da questa ricerca più fondamentale; (2) Antonio inizia a svolgere il suo ruolo di maestro dopo numerosi (almeno 35) anni di vita nascosta e ascetica; (3) in qualità di maestro Antonio ormai anziano apre una catena di “anziani” – per questo molto spesso nel mondo cristiano (ma non soltanto) l’essere maestro sarà legato con l’ età avanzata, anche se questo concetto sarà criticato molto presto da tanti: per esempio Giovanni Cassiano (+430 ca.) cercherà di mostrare che non sempre i capelli grigi significano “sapienza” o un Palladio (IV/V secolo) creerà un termine paidariogeronta (giovane–vecchio) per dire che un maestro può essere giovane ma pieno di sapienza come un anziano o se anziano possederà anche uno spirito giovanile (Storia Lausiaca 17,2).
Oltre questi tratti assai interessanti di modello di maestro cristiano la Vita di Antonio ne propone altri. Uno di questi riguarda gli inizi della vita di questo monaco. Nel testo di Atanasio si legge:
Allora, infatti, non c’erano ancora in Egitto tanti monasteri e i monaci non conoscevano ancora il grande deserto; chi voleva vigilare sulla propria vita si dedicava all’ascesi in solitudine non lontano dal proprio villaggio. Vi era allora nel villaggio vicino un vecchio che dalla giovinezza si era esercitato nella vita in solitudine. Antonio lo vide e gareggiò con lui nel bene. In primo tempo cominciò anch’egli ad abitare nei dintorni del villaggio e, quando sentiva parlare di qualcuno che era pieno di fervore, andava a cercarlo come una saggia ape e non faceva ritorno a casa sua prima di averlo visto e di aver ricevuto una sorta di viatico per perseverare nella via della virtù. (San Atanasio, Vita di Antonio, 3).
Da questo frammento risulta che Antonio, pur seguendo alcuni altri che lo hanno preceduto sulla via d’ascesi, non ha posseduto di fatti nessun “vero maestro”. Si potrebbe dire che pur imparando da altri ”qualcosa”, ha imparato “tutto” da solo. Da questo risulta che per certi versi uno diventa maestro “da solo” scavando o percorrendo alcune dimensioni dell’esistenza per primo e a proprie spese. Certo, fondamentale rimarrà, anche nel caso di Antonio, un forte riferimento all’insegnamento di Gesù e della Scrittura (la Vita di Antonio e incluso in essa l’insegnamento di questo monaco sono intessute di tantissimi riferimenti e interpretazioni della Bibbia).
Atanasio, scrivendo di Antonio, coglie il momento di svolta, in cui il monaco uscendo da una lungo isolamento e apparendo inizia il periodo del suo irradiamento:
Passò così circa vent’anni, da solo, nella vita ascetica, senza uscire e senza mai farsi vedere. Poi, siccome molti desideravano ardentemente imitare la sua vita d’ascesi, e poiché sono venuti altri suoi amici e avevano forzato e abbattuto la porta, Antonio uscì come un iniziato ai misteri da un santuario e come ispirato dal soffio divino. Allora per la prima volta, apparve fuori del fortino a quelli che erano venuti a trovarlo. Ed essi, quando lo videro, rimasero meravigliati osservando che il suo corpo aveva l’aspetto abituale e non era né ingrassato per mancanza di esercizio fisico, né dimagrito a causa dei digiuni e della lotta contro i demoni. Era tale e quale l’avevano conosciuto prima che si ritirasse in solitudine. E anche il suo spirito era puro, non appariva triste, né svigorito dal piacere, né dominato dal riso o dall’afflizione. Non provò turbamento al vedere la folla, non gioiva perché salutato da tanta gente, ma era in perfetto equilibrio, governato dalla ragione, nella sua condizione naturale. (San Atanasio, Vita di Antonio, 14).
Da notare, aspetto importantissimo, che la gente è colpita non tanto da insegnamenti o miracoli, ma dall’apparenza psicofisica di Antonio – il suo corpo parla o forse lui parla attraverso il suo corpo. Né sfibrato, né invecchiato, manifesta un perfetto equilibrio emotivo, una armonia. Atanasio caratterizza questo stato come “purezza dello spirito” o essere “governato dalla ragione, nella sua condizione naturale”. Da questo risulta che gli anni dell’ascesi dovevano essere un cammino di purificazione per raggiungere la purezza (prima non posseduta a causa di qualche impurità) o anche il raggiungimento di qualche condizione naturale (persa o dimenticata che faceva si che l’uomo vivesse non nella sua natura ma in qualche modo fuori di sé). Antonio, una volta raggiunto questo stato interiore, incomincia testimoniare la possibilità di vivere e di sperimentare un tale stato, e con ciò inizia il suo influsso sugli altri:
Il Signore, per opera sua (cioè di Antonio), guarì molti dei presenti che pativano nel loro corpo e liberò altri dai demoni. Il Signore concedeva ad Antonio il dono della parola e così consolava molti che erano in lite e a tutti ripeteva che nulla di quanto è nel mondo deve essere anteposto all’amore per Cristo. Parlando e ricordando i beni futuri e l’amore che ha mostrato per noi uomini il Dio che non risparmiò il proprio figlio, ma lo offrì per tutti noi, convinse molti ad abbracciare la vita solitaria. E così apparvero dei monasteri sui monti e il deserto divenne una città abitata da monaci che avevano abbandonato i loro beni e avevano scritto il loro nome nella cittadinanza del cielo. (San Atanasio, Vita di Antonio, 14).
Dio aveva data (Antonio) all’Egitto come medico. Chi andò a lui nel dolore e non tornò nella gioia? Chi andò da lui piangendo i suoi morti e non depose subito il suo lutto? Chi andò da lui nella collera e non si convertì a sentimenti di amore? Chi, afflitto per la sua povertà, venne a trovare Antonio e nell’udire le sue parole e al vederlo non disprezzò la ricchezza e non trovò conforto nella sua povertà? Quale monaco scoraggiato andò da lui e non divenne più saldo? Quale giovane salì alla montagna e, vedendo Antonio, non rinunciò subito ai piaceri e non amò subito la temperanza? Quando mai andò da lui qualcuno tormentato dal demonio e non ne fu liberato? E chi andò da lui tormentato dai pensieri e non trovò la pace della mente? Vi era questo grande nell’ascesi di Antonio, che, come ho detto in precedenza, grazie al dono del discernimento degli spiriti, ne sapeva riconoscere i movimenti e non ignorava le inclinazioni e le preferenze di ciascuno. (San Atanasio, Vita di Antonio, 87-88).
Gli elementi che caratterizzano il suo irraggiamento, cioè il modo di Antonio di essere maestro sono i seguenti: l’insegnamento attraverso la parola in cui Gesù Cristo è punto centrale, salvezza (guarigione), insegnamento, guarigioni da diversi disturbi interiori con cui la gente veniva ad Antonio, consolazione, incoraggiamento grazie al posseduto dono del discernimento degli spiriti, l’avere discepoli, seguaci o imitatori.
Gregorio Magno (+607)
Si può parlare nel cristianesimo di una teologia del maestro. In questo caso teologia (una parola di significato assai molteplice) vuol dire sistema, una visione di insieme della realtà in cui il concetto di maestro appare come elemento essenziale del sistema stesso. Si potrebbe parlare anche di una metafora dell’intera realtà con la figura di maestro al centro. Tali sistemi teologici possono essere diversi. Qui ci soffermiamo soltanto su uno di loro, descritto alla fine del sesto secolo dal vescovo di Roma, papa Gregorio Magno nel quarto libro dei suoi Dialoghi (un bestseller del mondo occidentale latino dell’epoca tardo antica e medievale). Gregorio scrive:
Perciò tutti gli uomini carnali non essendo in grado di conoscere per esperienza quelle realtà invisibili, mettono in dubbio la loro esistenza, proprio perché non le vedono con gli occhi del corpo. Questo, però, è un dubbio che non poté avere il progenitore degli uomini, perché, pur essendo escluso dalle gioie del paradiso, conservava nella memoria il ricordo di ciò che aveva perduto, per averlo visto. Invece coloro che vivono nella carne non possono né percepire né custodire nella memoria quello di cui hanno sentito parlare, poiché, a differenza di lui, non hanno alcuna esperienza, neppure relativa al passato.
È come se una donna incinta fosse messa in carcere e là partorisse un bambino, e questo venisse nutrito e crescesse nella prigione. Anche se sua madre gli parlasse del sole, della luna, delle stelle, dei monti e delle pianure, degli uccelli che volano e dei cavalli che corrono, il bimbo, nato e cresciuto in carcere, nulla altro conoscerebbe che le tenebre di quel luogo. Perciò, pur sentendo parlare di tali cose, non avendole conosciute per diretta esperienza, dubiterebbe che esistono realmente. Allo stesso modo gli uomini, nati in questa cecità del loro esilio, sentendo dire che ci sono beni sommi ed invisibili, ne mettono in dubbio la reale esistenza, perché hanno conosciuto soltanto quelle povere ed effimere realtà visibili in mezzo alle quali sono nati.
Ecco perché il Creatore delle cose invisibili e di quelle visibili, il Figlio Unigenito del Padre, è venuto a redimere l’umanità ed ha effuso nei nostri cuori lo Spirito santo: perché, da lui vivificati, credessimo a quelle realtà che ora non possiamo sperimentalmente conoscere. Quanti, dunque, abbiamo ricevuto lo Spirito caparra della nostra eredità, abbiamo la certezza della esistenza degli esseri invisibili.
Chiunque però non è ancora saldo in questa convinzione, è moralmente obbligato a prestar fede alle parole degli antichi (lat. maiores) e a credere loro, perché essi, per dono dello Spirito santo, hanno già una qualche esperienza dell’invisibile. Sarebbe infatti stolto il bambino, se pensasse che sua madre mente quando parla della luce, solo perché egli personalmente non conosce altro che tenebre del carcere. (Gregorio Magno, Dialoghi IV,I,2-5)
Nel sottofondo di questo testo giace un sottile riferimento alla caverna di Platone che schiude un dramma dell’esistenza umana: si vive senza vedere e conoscere quel che bisogna conoscere. Gregorio la chiama situazione di esilio e cecità. Un ruolo importante nella sua spiegazione gioca la categoria del vedere – non si vede il paradiso da cui si è allontanati, non si vede quello che si trova oltre le mura della prigione. Tutte queste sono analogie perché in realtà si tratta di non conoscere e non vedere l’invisibile, lo spirituale, che sta oltre quel visibile materiale a cui dà un senso. Normalmente l’invisibile dovrebbe essere un dominante della vita umana, qualcosa che si sperimenta e che si ricorda. Ma il dramma sta nel fatto che per qualche ragione (non spiegata nel testo) questo sperimentare e ricordare sono venute meno per cui la dimensione spirituale, invisibile ha cessato di essere dominante. In tale contesto entra la persona di Gesù Cristo la cui missione era di redimere l’ umanità (cioè riprenderla dalla prigione e dalla lontananza dal paradiso perduto) e dare ad essa lo Spirito perché creda nelle realtà spirituali e abbia certezza della loro esistenza. Sembra però che questa opera redentrice, se non fallita, rimanga almeno per certi versi non compiuta perché ancora ci sono persone che non possiedono una ferma convinzione dell’esistenza delle realtà invisibili. A questo punto entrano sulla scena “i maestri” chiamati da Gregorio “maiores” che possiedono l’esperienza delle realtà invisibili e perciò anche una autorità e credibilità nei confronti degli altri e possono svolgere il ruolo di guida o essere punti di riferimento. I maestri – in questo quadro gregoriano – appaiono nell’orizzonte tenebroso in cui giace tutta l’ umanità, come luci del ricordo e della presenza delle realtà invisibili. Servono da mediatori, tra l’ umanità e le realtà invisibili, sono mandati da Dio.
Questo tipo di pensiero riguardo alla figura del maestro – che include una visione di non-maestri a confronto – è stato molto diffuso nel mondo cristiano. E pur essendo assai chiaro e affascinante presenta alcune esitazioni o almeno fa emergere alcune domande. Perché le realtà invisibili, pur essendo così essenziali, non si presentano e non si impongono con una forza convincente nei cuori degli uomini? Perché, nonostante l’opera redentrice del Salvatore Gesù Cristo, ci sono ancora uomini che non conoscono, attraverso una esperienza diretta, le realtà invisibili? Perché lo Spirito dato dal Redentore, mandato dal Padre e creatore, non è per tutti motivo di certezza delle realtà invisibili? Perché tra gli uomini c’è chi ha esperienza dell’invisibile e chi no? Questi “maiores” possono “dare” agli altri l’esperienza dell’invisibile, cioè offrono qualcosa a coloro a cui è mancato o semplicemente risvegliano nei cuori altrui qualcosa di già presente ma dimenticato? Insomma, la figura del maestro in questa prospettiva, appare segnata da qualcosa di grandioso e importante, ma in un dramma, circondato da numerose domande di non poco peso.
Simeone il Nuovo Teologo (+1022)
Simeone il Nuovo Teologo è spesso considerato e visto come uno dei maggiori mistici del cristianesimo. Visse nel contesto della cultura bizantina e fu della corrente orientale del cristianesimo; monaco, riformatore, autore di numerosi testi teologici di notevole importanza, persino poeta. Frequentando i suoi testi si viene colpiti sia dallo spessore mistico della immediata e profonda esperienza di Dio (dimensione ovvia per un mistico), sia dalla necessità che rivela di avere una guida, un maestro, una mediazione o un mediatore in questo cammino. In Simeone (come in tanti altri) si legge una tensione tra il desiderio dell’immediata l’esperienza di Dio e la necessaria mediazione di un maestro. In molti dei suoi testi sono descritte le caratteristiche del maestro e le regole di comportamento di un discepolo. La figura del maestro è molto elevata: il maestro è quasi un’ incarnazione o un rappresentante di Cristo, è un’autorità assoluta e indispensabile, il rapporto con lui è esclusivo e richiede un’ obbedienza “cieca”. Solo come esempio si possono leggere testi come:
Chi ha acquistato una limpida fede nel suo padre secondo Dio, vedendolo pensa di vedere Cristo stesso e, stando con lui e seguendolo, crede fermamente di stare insieme con Cristo e di seguirlo. Una tale uomo non desidera di conversare con altro, non preferirà alcuna delle cose del mondo al ricordo e insieme all’amore di lui. Che cosa è di più grande nella vita presente e nella futura che essere con Cristo? Quale cosa più bella o più dolce della sua vita? E se si è anche fatti degni della sua conversazione, da essa si attinge certamente la vita eterna. (Simeone il Nuovo Teologo, Capitoli pratici e teologici, 19, in Filocalia 3, 352).
Dal momento in cui ti sei rimesso interamente al tuo padre spirituale, sii estraneo a tutto ciò verso cui sei portato, all’esterno: agli uomini, intendo, agli affari e alle ricchezze. Senza di lui non voler fare assolutamente nulla, riguardo a ciò, non chiedergli nulla, di piccolo o di grande, se lui non ti ordinerà di prendere di sua propria iniziativa, o sia lui stesso a dirtelo di sua mano. (Simeone il Nuovo Teologo, Capitoli pratici e teologici, 15, in Filocalia 3, 352).
Simeone il Nuovo Teologo nella sua giovinezza ebbe un maestro di nome Simeone (poi denominato “il Pio”). Simeone il Nuovo Teologo fu molto legato e dipendente da lui e il fatto fu notato nell’ambiente monastico in cui viveva (il monastero di Studio a Costantinopoli). Alla morte del maestro, Simeone il Nuovo Teologo cercò di promuoverne una certa forma di culto suscitando reazioni contrarie nella capitale. In seguito Simeone stesso divenne capo di un altro monastero nella capitale dell’Impero, e il modo di governare o presiedere sembra abbia riscosso un certo successo. Da tutto questo però si possono trarre alcune conclusioni che riguardano la questione del maestro: 1. sicuramente nel caso di Simeone, giovane, vi è la ricerca di una figura paterna (campo assai interessante per un psicologo); 2. certamente un numero notevole dei suoi testi che riguardano la questione del maestro provengono da questo periodo giovanile e non dovrebbero essere presi come indicazioni assolute per tutti e per sempre (cosa che purtroppo è successa).
Esiste poi un'altra dimensione che bisogna prendere in considerazione parlando della figura del maestro in Simeone il Nuovo Teologo – è una dimensione con risvolto sia storico che sociologico. Storicamente Simeone appartiene ad un periodo di transizione in cui il modello teocratico dell’Impero bizantino vive le suo difficoltà. Nella massiccia struttura piramidale di questo Impero, l’Imperatore è un rappresentante di Dio o persino un “Dio sulla terra” da cui tutto proviene e tutto dipende – anche la vita della chiesa e la salvezza dei suoi cittadini. Ma nell’epoca di Simeone tutto questo non funziona più: l’Imperatore con la sua burocrazia e l’esercito non riescono più a garantire l’unità e la prosperità dell’Impero. E d’altra parte nelle menti delle persone l’ideale teocratico scade– forse sarebbe troppo dire che nessuno crede più, ma sicuramente la gente ha dubbi riguardo all’intero sistema di governo e di modello sociale. Così appaiono le famiglie nobili che desiderano introdurre un sistema oligarchico per sanare la situazione. E’ un movimento decentralizzante – si desidera passare da un Imperatore ad un gruppo
Simeone appartiene ad una di tali famiglie ed è fortemente coinvolto nei suoi affari politici (purtroppo non tutti gli studiosi della sua mistica ne sono consci). Alle questioni socio-politiche aggiunge anche le sue inclinazioni che si potrebbe definire teologiche e mistiche. Simeone, conscio che il sistema teocratico dell’Impero non funziona più e assai critico anche riguardo alla gerarchia ecclesiale (spesso compromettente, dipendente dall’Imperatore e corrotta), più o meno coscientemente propone la sua idea di maestro o guida. Nella sua visuale proprio i maestri o i padri spirituali, avendo una diretta esperienza di Dio, dovevano prendere in mano il governo dell’Impero! Devono essere loro a guidare e dirigere le persone più nobili che a loro volta governano in modo giusto, retto e spirituale l’intera società.
Simeone appartiene ad una determinata cultura e epoca. Ma un movimento storico analogo che include la figura del maestro nei suoi aspetti teorici e pratici, si osserva anche in altri momenti e luoghi, comunque segnato da una tensione tra un potere centralizzato e uno decentralizzato. Quando, per esempio, in epoca medievale sia il potere ecclesiale (il papato) che civile (i re) sono corrotti, appaiono figure di santi che diventano di riferimento (si pensi per esempio nel mondo occidentale a Francesco d’Assisi o Catarina dai Siena). Mutatis mutandis, nella stessa categoria cadono, nell’epoca degli assolutismi imperiali (si pensa di questo francese o quello spagnolo) dal Seicento in poi, le teorie e la prassi dei “confessori” o dei “padri spirituali” promossi con perspicacia da gesuiti o carmelitani, che “attraverso il confessionale” pretendono, non di rado con un certo successo, di influire sull’andamento della storia degli imperi.
Tali movimenti “spirituali” spesso mettono sotto questione non solo l’origine delle cose del mondo e della società, ma anche guardano con un certo sospetto la gerarchia della chiesa e l’intero ordine sacro costituito da una “necessaria” mediazione di una gerarchia centralizzata, di un culto sacro, di una dottrina ben custodita e sicura. Da qui nasce anche la conflittualità tra un centro governativo (politico o religioso) e una tale maestro illuminato. L’esempio più clamoroso a proposito ci viene da Martin Lutero il protagonista della Riforma, che per certi versi, mette sotto questione qualsiasi mediazione sacra circa la conoscenza di Dio e la salvezza. Per lui ogni persona può (e deve!) avere un diretto contatto con Dio – le guide umane (anche se spirituali) servono poco; bastano la fede e la Scrittura attraverso cui ogni persona trova accesso all’unico Dio. È proprio Lutero e la Riforma che aprono la strada ad un processo di demitizzazione e desacralisazzione del ruolo del maestro nel mondo cristiano.
Maestro interiore Esiste ancora un altro paradosso legato al tema del maestro nel mondo cristiano. Come è possibile scrivere una storia dei maestri ritrovandoli in una catena “quasi” ininterrotta da Gesù fino ai nostri tempi (nonostante forzature interpretative della storia del cristianesimo e della sua spiritualità), così si può sentire parallelamente un grido che cerca maestri e ne testimonia la mancanza. Nella letteratura cristiana, c’è quasi un eco di lamenti del tipo: Non ci sono veri maestri; Dove trovare un maestro? Cercate un maestro, pregate perché appaia. Di fronte a questa situazione si è cercato di rimediare pensando all’idea di un maestro interiore. Le teorie intorno all’argomento sono numerose e svariate. Alcune si sviluppano nella prospettiva di una delusione: se mancano i maestri “esteriori” bisogna accontentarsi di un maestro “interiore”. Altre procedono in una direzione piuttosto “educativa”: avendo o non avendo un maestro, prima o poi bisogna ritrovare o risvegliare un proprio maestro interiore e seguirlo perché così prende valore. Le teorie sul maestro interiore si appoggiano su alcuni testi della Scrittura in cui si parla dello Spirito Santo che abita nei cuori dei credenti e nell’uomo interiore. In questo saggio, a titolo di esempio, si riportano due testimonianze a proposito del maestro interiore: una del mondo del cristianesimo antico e latino di Agostino d’Ippona e l’altra del mondo medievale bizantino e cioè greco di Niceforo l’Esicasta.
Il trattato di Agostino intitolato Il maestro (De magistro) è stato scritto nel 389. La questione fondamentale dello scritto è questa: a che servono gli studi se non perché una persona diventa un uomo vero, cosciente di sé e della verità? Agostino desidera affermare che educarsi, vuol dire riscoprire in sé, con l’aiuto dei valori e dei mezzi educativi, una dimensione interiore e spirituale e rendersi conto che il nostro essere spirituale partecipa di una Sapienza e di una Verità più grande (cioè quella divina). In altre parole, si potrebbe dire che senza nulla togliere all’autorevolezza dell’insegnante che trasmette verbalmente dei contenuti, ci deve essere una riscoperta della dimensione interiore per arrivare allo scopo. Ecco alcuni un brano di questo trattato in qui è mostrata la necessità di una qualità interiore per comprendere la verità:
Sul mondo intelligibile poi non ci poniamo in colloquio con l’individuo che parla all’esterno, ma con la verità che nell’interiorità regge la mente stessa, stimolati al colloquio forse dalle parole. E insegna colui con cui si dialoga, Cristo, di cui è stato detto che abita nell’uomo interiore, cioè l’interamente immutabile potere e sapienza di Dio (cf. Ef 3,16-17 e 1 Cor 1,24). Si pone in colloquio con lui ogni anima ragionevole, ma essa si rivela a ciascuno nei limiti con cui può avene conoscenza secondo la buona o cattiva volontà. E il fatto che può sfuggire non avviene per il difetto della verità con cui si è riportata, come non è difetto della luce sensibile che visita spesso s’inganna. Ma noi dobbiamo ammettere che ci si rapporta alla luce per le cose visibili perché ce le mostri secondo il limite della nostra facoltà (Agostino, Il maestro 38).
In un altro frammento Agostino mostra l’insufficienza di un maestro o insegnante “esteriore” se non è posta di fronte la nozione di maestro interiore:
E chi è così scioccamente amante del sapere da mandare a scuola il proprio figlio perché apprenda ciò che pensa il maestro? Piuttosto, quando hanno esposto con parole tutte le discipline che dichiarano d’insegnare, comprese quelle della morale e della filosofia, allora i così detti discepoli considerano nella loro interiorità se le nozioni sono vere, sforzandosi, cioè d’intuire la verità ideale. Soltanto allora apprendono e quando scopriranno nell’interiorità che le nozioni sono vere, lodano, senza pensare che non lodano i docenti ma i dotti se, tuttavia, anche costoro sanno quel che dicono. S’ingannano dunque gli uomini nel chiamare maestri quelli che non lo sono perché il più delle volte fra il momento del discorso e quello della conoscenza non v’è discontinuità; e poiché dopo l’esposizione dell’insegnante immediatamente apprendono nell’interiorità, suppongono di avere appreso da colui che ha parlato dall’esterno” (Agostino, Il maestro, 45).
In conclusione per Agostino l’uno e l’unico maestro dell’uomo è Dio stesso che abita nei cieli, ma poiché, lui dice, questi cieli “più lontani” si trovano nel “più intimo” dell’uomo, l’interiorità stessa della persona umana è considerata “maestro”. Si percepisce allora lo scatto dialettico, che nei secoli seguenti diventa fondamentale: dal maestro terrestre a Dio stesso come maestro, dal cielo abitato da Dio al cuore umano dove Lui è presente, per arrivare così alla dimensione di una divino maestro interiore. Sulla base di tale ragionamento agiranno poi numerosi i mistici che pretenderanno di essere guidati direttamente da Dio che abita in loro e in seguito parecchi di loro pretenderanno di essere guide per gli altri proprio perché loro stessi sono stati ammaestrati e guidati dal maestro interiore quasi immedesimandosi con lui:
“Non dobbiamo infatti soltanto avere la fede, ma cominciare anche ad avere intelligenza della verità di ciò che per divino magistero è stato scritto, che cioè non dobbiamo considerare nessuno come nostro maestro sulla terra poiché l’unico maestro di tutti è in cielo (cf. Mt 23,8-10). Che cosa significhi poi in cielo ce lo insegnerà quegli, dal quale, per mezzo degli uomini con segni dall’esterno, siamo avvertiti a farci ammaestrare rientrando verso di lui nell’interiorità. Amarlo e conoscerlo è felicità. Tutti gridano di cercarla, pochi si allietano di averla veramente trovata. (…) Se poi non sai che la tesi è vera, non ti ho insegnato né io né lui: io perché non sono capace d’insegnare, lui perché tu non sei ancora capace d’apprendere” (Agostino, Il maestro, 46).
Con il frammento scritto da Niceforo si cambia sia l’epoca sia il contesto in cui il tema del maestro interiore è preso in considerazione. Niceforo visse nel tredicesimo secolo, principalmente sul Monte Athos. Essendo un monaco si dedicò alla vita spirituale con particolare attenzione alla pace o quiete (esichia). Perciò a posteriori è stato chiamato “l’Esicasta”. I tempi in cui visse Niceforo non erano tranquilli e sembra che i contesti che lui frequentava non abbondavano di insegnanti profondi e buoni. Perciò per cercare le vie della saggezza lui si immerse nelle letture dei testi antichi (da Antonio e Simeone il Nuovo Teologo) e scoprì che uno dei temi principali, intorno a cui bisogna costruire la prassi e la teoria della vita è quello dell’attenzione (prosoché). Questa dimensione è tema antico presente negli stoici, in Filone d’Alessandria e poi lungo tutta la tradizione cristiana greca. È un insieme di comportamenti e coscienze: praticando l’attenzione uno deve essere attento a come agisce e come pensa, quali sono i motivi più intimi dei suoi pensieri e sentimenti, deve essere presente a se stesso, alla realtà e persino a Dio. È un concetto assai vicino alla consapevolezza presente nelle tradizioni dell’estremo oriente. Niceforo era convinto che l’attenzione è fondamentale e come tale ha bisogno anche di un maestro, cioè una persona che avvia verso gli spazi della vita interiore; sulle scie dell’attenzione ha bisogno di una guida o di un maestro (hodegòs). Ma sembra che questi non fossero facili da trovare e Niceforo stesso ne era conscio. Questa situazione è stata descritta da lui nel modo seguente:
"Questa condizione sublime (cioè l’attenzione/prosoché) viene raggiunta dai più, se non da tutti, per mezzo dell’insegnamento di un maestro (hodegòs). Pochi, infatti, l’hanno ricevuta da Dio, senza maestro, e grazie alla violenza della loro opera e al fervore della loro fede. Ma l’eccezione non fa la regola. Perciò si deve cercare un maestro infallibile, in modo che apprendiamo dal suo insegnamento le nostre cadute a destra e a sinistra nell’attenzione, i nostri difetti e i nostri eccessi suggeritici dal Maligno. La sua esperienza al riguardo ci illuminerà e ci mostrerà senza alcun dubbio il cammino spirituale e così potremo avanzare senza difficoltà. Se no c’è un maestro, devi cercarlo affannosamente. Se non lo troverai, invoca Dio nella contrizione di spirito e nelle lacrime e, supplicandolo nella povertà, fa’ quello che ti dico” (Niceforo il Solitario, Discorso sulla sobrietà e sulla custodia del cuore, in Filocalia III, 525).
Niceforo considera la mancanza di un maestro come una povertà. Importante però è ciò che propone in cambio. E alla fine propone se stesso come maestro per chi legge i suoi scritti (“fa quello che ti dico”). Questa è la prima constatazione: come per lui la scoperta del tema dell’attenzione avviene attraverso lo studio dei testi antichi, così lui stesso propone – nel caso di mancanza di maestro – il suo testo come una guida, come “maestro”. Sembra questo un tema proficuo, da sviluppare: la storia della lettura concepita come esercizio spirituale nel mondo cristiano – forse ne risulterebbe come conclusione che molto spesso erano proprio i testi (quelli della Scrittura o quelli di altri autori) che giocavano il ruolo di maestri.
Ma poi bisogna passare alla domanda: che cosa Niceforo dice di fare per ottenere lo stato di attenzione? E qui la sorpresa è ancora maggiore. Nel caso di mancanza di un maestro, egli propone di praticare una meditazione in cui sono congiunte: una posizione seduta del corpo, un respiro regolato e rallentato, la ripetizione della frase “Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”. Più tardi questo tipo della meditazione sarà conosciuto sotto il nome di “Preghiera di Gesù” o “Preghiera del cuore”.
A Niceforo però importa il fatto che questo tipo di meditazione può sia sostituire un maestro, sia risvegliare e sviluppare l’atteggiamento dell’attenzione, in tal caso per certi versi funziona come maestro interiore. Importante è da notare che in questo momento – il testo di Niceforo è il più antico in assoluto nel mondo cristiano – un possibile (o proprio impossibile) maestro (hodegòs) è sostituito da “un metodo” (meth-hodos) descritto in un manuale. Questo è ancora un altro dei paradossi che segnano il tema del maestro.
Sacra Scrittura come maestro
Il cristianesimo sostiene che l’incarnazione ossia la presenza di Gesù Cristo (che è considerato come la Parola di Dio incarnata) in qualche modo continua ad essere presente in questo mondo sotto la forma della Santa Scrittura (anche questa chiamata Parola di Dio). Gesù stesso non solo spiegava le Scritture degli Ebrei e le interpretava in un modo nuovo ed originale, ma si comprendeva e così anche è stato visto dagli altri come Uno che incarna in sé le parole della Scrittura. Perciò Lui è stato considerato come una sintesi della Scrittura e come l’interpretazione incarnata, sublime e unica di essa. Da ciò è derivata una convinzione, apparsa molto presto nel cristianesimo, che la giusta conoscenza delle Scritture equivale alla conoscenza di Gesù Cristo. Il legame tra queste due realtà (cioè tra Gesù e le Scritture, tra un Uomo e il Testo) è stato fatto sulle ali dello Spirito: si è capito presto che lo Spirito che ha ispirato le Scritture è lo stesso Spirito che era presente in Gesù. Un passo successivo è stato fatto quando si è sostenuto che anche lo stesso Spirito abita in chi crede in Gesù. Perciò bastava essere nello Spirito o possederlo, per capire in modo giusto le Scritture e scoprire in esse la presenza (misteriosa o nascosta) di Gesù stesso. Però per possedere questo Spirito bisognava praticare la via dei comandamenti, praticare l’ascesi e purificare il cuore di cui ovviamente la stessa Scrittura parla. Prendere famigliarità con le Scritture, vivere secondo esse per conoscere e per unirsi con Gesù divenne una delle strade della spiritualità e della prassi cristiana. Uno degli autori – ce ne sono tanti altri – già citato in questo saggio, Gregorio Magno, così scrive a proposito:
"La Sacra Scrittura si presenta agli occhi della nostra anima come uno specchio, in cui possiamo contemplare il nostro volto interiore. In questo specchio noi possiamo conoscere ciò che in noi c’è di bello e di brutto; possiamo verificare il nostro progresso e quanto siamo lontani dalla metà. La Sacra Scrittura racconta le imprese dei santi e stimola i cuori fiacchi e deboli ad imitarli. E mentre richiama alla memoria le loro azioni virtuose rafforza le nostre deboli membra per affrontare la lotta contro il male. Le sue parole rendono meno trepidante nel combattimento il nostro spirito, che si vede posti di fronte i trionfi di tanti valorosi. Qualche volta poi, non solo ci descrive le loro vittorie, ma ci rende note anche le loro sconfitte, affinché possiamo ricavare dalla vittoria dei forti l’esempio da imitare e vedere nella sconfitta ciò che dobbiamo temere” (Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, II,I,1).
Da tutto questo proviene una complessa e assai interessante relazione che esiste tra un maestro e la Santa Scrittura nel mondo cristiano. Soprattutto un maestro – sulle orme di Gesù – interpreta le Scritture sia con la propria vita sia con il proprio insegnamento. In altre parole non esiste maestro senza riferimento alle Scritture: egli cerca di capirle e di incarnarle nella propria vita; in seguito diventa per gli altri come uno che rispecchia in sé le Scritture (si riconosce maestro in rapporto alle Scritture), diventa per loro una interpretazione o una esegesi viva; per questo anche un maestro commenta le Scritture per gli altri inviandoli sulla via delle Scritture. Bisogna pure affermare che ciò non significa che un maestro sia solo un erudita riempito di informazioni – ma sicuramente è capace di vivere e di conoscere un contenuto delle Scritture che per gli altri spesso non sono ovvie. Il mistero di Dio giace nascosto nelle Scritture, come anche giace nascosto nei cuori. Un maestro è capace di svelare questa presenza.
Il maestro e/o il magistero
Nel mondo cristiano, e in modo particolare nella sua forma cattolica, esiste una dimensione che deve essere presa in considerazione quando si discute il tema del maestro. Questa è, per modo di dire, una dimensione istituzionale e istituzionalizzata del maestro spesso denominata come “il magistero” (dal latino magister, cioè maestro, insegnante). La questione e la stessa istituzione possiedono la propria storia, evoluzione e teologia che fanno parte di un sistema, oggi assai articolato, chiamato ecclesiologia. Per l’uso di questo saggio e semplificando un po’ le cose, ci serviamo di un testo “classico” proveniente dal Catechismo della Chiesa Cattolica pubblicato nel 1992 che nel suo insegnamento a proposito principalmente riprende alcune frasi del Concilio Vaticano Secondo:
"L’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo” (DV 10), cioè ai vescovi in comunione con il successore di Pietro, il vescovo di Roma. Questo “Magistero però non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la scolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio” (DV 10). I fedeli, memori della Parola di Cristo ai sui Apostoli: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16), accolgono con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati, sotto varie forme, dai Pastori (Catechismo della Chiesa Cattolica 1992, 85-87).
Come risulta da questo testo, il magistero, è composto dai vescovi (considerati come i successori degli apostoli) presi insieme con il vescovo di Roma (successore dell’apostolo Pietro). L’interpretazione della Scrittura proposta da tale organo istituzionale è considerata come “magisteriale”, perciò rivestita di verità e di autorità. Nel fondo questo magistero è una istanza “oggettivizzante”, che è anche una cosa propria del sistema ecclesiologico cattolico. Per esempio esiste in questo sistema una dottrina riguardo ai sacramenti che dice che ogni sacramento, se compiuto secondo le prescrizioni del rito, è valido e provoca l’effetto desiderato, aldilà della disposizione “morale” della persona che lo compie (il battesimo può essere eseguito sotto alcune condizioni anche da un non credente). Così il magistero sarebbe una istanza che aldilà dell’esistenza o della mancanza di maestri o interpreti della Parola di Dio offre un insegnamento oggettivo e libero dall’errore.
Il magistero possiede alcune caratteristiche analoghe di maestro. Soprattutto è legato con la Parola, in una particolare spirale dialettica: da una parte offre una interpretazione della Parola di Dio (si capisce che le interpretazioni possono essere tante che il magistero offre questa una, unica giusta) e d’altra parte dipende da questa parola; cioè sta sopra e sotto alla Parola. Va poi notato che il magistero si riferisce ai fedeli della chiesa (intesi come non appartenenti alla gerarchia episcopale presa insieme con il vescovo di Roma) come un maestro ai suoi discepoli. Infine, come nel caso di un maestro, l’autorità di questa istituzione proviene dalla presenza in essa dello Spirito Santo.
Ovviamente tutto questo potrebbe essere (e non di rado è stato) criticato. Ci si potrebbe domandare con quale autorità un magistero si riveste della sua autorità. Si potrebbe esitare se la presenza personale di un maestro potrebbe essere sostituita da un gruppo che per giunta cambia in continuo. Si potrebbero cercare nel passato esempi (non pochi) in cui il magistero si è pronunciato a proposito di qualcosa in modo sbagliato. Si potrebbero elencare proposte teologiche (anche queste assai numerose) che mettono in discussione sia il modo di esercitare questo ufficio, sia che cercano le ermeneutiche che potrebbero interpretare quanto il magistero ha già interpretato. Tutto questo però non cambierebbe il fatto che la realtà e una certa utilità di un magistero all’intero del cattolicesimo rimangono. Per giunta ogni altro sistema ecclesiale (ortodosso o protestante), come anche le religioni non cristiane, possiedono – accanto ai loro maestri – le istituzioni “oggetivizzanti” rivestite di una certa autorità e importanza. Ma alla fine uno si pone pure una domande – nella cui luce anche con una maggiore drammaticità si vede la questione del maestro in genere – perché non tutti sono capaci di essere maestri (così i maestri potrebbero sparire) e perché poi i maestri sono tanto rari e tanto deboli al punto che talvolta occorre una istituzione per sostituirli.
Esteriorità di una interiorità ossia la presenza di un maestro
Proprio sul versante opposto di una dimensione istituzionale e istituzionalizzata del maestro si colloca la dimensione della presenza proprio corporea di un maestro. È una cosa una e unica, non sostituibile e non riducibile. Un maestro non solo parla, scrive, insegna con le parole, non solo compie le gesta più o meno miracolose o indicative, ma anche irraggia un’aria: colpisce per come è, come si muove, come guarda. Per questo non solo si cerca il suo insegnamento, ma anche la sua presenza, il calore spirituale che scalda gli altri che imparano qualcosa attraverso questo contatto, chiamiamolo pure, “corporeo”. Ecco, come la cosa è descritta da uno dei detti legato con la figura di Antonio d’Egitto:
Tre padri avevano l’abitudine di recarsi ogni anno dal beato Antonio. Due di loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell’anima; uno, invece, taceva sempre e non chiedeva nulla. Dopo molto tempo abba Antonio gli disse: “Da tanto tempo vieni qui e non mi chiedi niente!” E quello gli rispose: “Mi basta soltanto vederti, padre” (Apophtegmata patrum, Antonio 27).
Un altro esempio è la descrizione o piuttosto la testimonianza di uno che ha visto ed è stato colpito da “qualcosa” che ha notato nel contatto con un monaco proveniente dall’Ucraina, ma poi vissuto in Romania del diciottesimo secolo di nome Paisij Velickovskij:
"Con i miei occhi vidi la stessa virtù materializzata, un uomo libero dalle passioni e assolutamente trasparente. La sua figura mi appariva dolcissima, e il suo viso bianchissimo, come esangue. La sua barba era tutta bianca e luccicante, pulitissima. Era molto dolce nel conversare, senza alcuna finzione. Lo si sarebbe detto un uomo senza corpo” (Costantino Karaghias).
Questo frammento coglie bene il mistero e le dinamiche paradossali della presenza di un maestro. Da una parte si nota e si dice che in lui c’è qualcosa di incorporeo (“un uomo senza corpo”), ma d’altra parte tutta la descrizione è dedicata al suo aspetto esterno: viso bianchissimo, barba lucente, atteggiamento dolce, libero e spassionato nella gestualità e nelle espressioni. La dimensione corporea non sparisce (non può), ma diventa un veicolo della comunicazione di qualcosa che sembra essere oltre corporeo. È una bellezza, una trasfigurazione, una divinizzazione. Le teorie (o le teologie) che cercavano di spiegare questo fenomeno sono svariate. Ne prendiamo una, solo a titolo di esempio, che proviene da un autore del sesto/settimo secolo molto letto e apprezzato lungo i secoli, Giovanni Climaco:
L’esicasta è colui che gareggia per circoscrivere – cosa mirabile – l’incorporeo in una dimora corporea (Giovanni Climaco, citato da Niceforo l’Esicasta, Filocalia III, 521).
L’esicasta in questo caso è un maestro, uno santo o saggio. E tutto il processo della vita di un tale uomo sta nell’ includere, circoscrivere nel suo corpo, l’incorporeo, che in questo caso significa qualcosa di divino. Certi poi diranno che questa dimensione deve essere conquistata attraverso la via dell’ascesi e del dono gratuito di Dio stesso (la grazia), altri punteranno sul fatto che questa dimensione dimora da sempre nell’uomo e lo scopo della vita e di tutte le prassi ascetiche sta nel fatto di liberarla, renderla attiva. Insomma quando questo succede in una persona avviene un cambiamento interiore ed esteriore che si nota, si esteriorizza e si dilata – così poi tutto ciò che fa è radicato in segnato da questa dimensione “spirituale” da cui poi parte il suo insegnamento e il suo irraggiamento come maestro.
Presenze discrete
I tempi recenti sono difficili da leggere. A proposito del tema di maestro anche il mondo cristiano vive le sue difficoltà e i suoi paradossi. Da una parte si nota, come sempre, una forte mancanza di maestri. Sergio Quinzio già 25 anni fa ha scritto a proposito: “Non esistono più maestri, chi è nella condizione di dire qualcosa non può dire ormai che parole chiuse nell’orrore, non più parole d’insegnamento” (Sergio Quinzio, Dalla gola del leone, Adelphi, Milano 1980, 72). E questa è una voce assai veritiera che dice che non di rado i cristiani stessi cercano le loro guide oltre i recinti delle istituzioni ecclesiali. Perché l’altra faccia della medaglia di tutta questa carenza è che più mancano maestri, tanto più sono richiesti. Rimane aperta la domanda, se questa situazione sia del tutto particolare per i nostri tempi o forse, non sapendolo, ci inseriamo dentro un lamento perenne che ripete: i maestri non ci sono e va di peggio in peggio.
Ovviamente non mancano le soluzioni “kitch” – le figure mediocri lanciate dai mezzi di comunicazioni o quelle che si auto-propongono. Ma di solito durano poco, uno sostituisce l’altro e nell’insieme sono di tendenza idolatra. Spesso illudono e si pensa possano essere fari che conducono alla luce della saggezza, ma alla fine si scopre che dopo di loro rimane solo un vuoto logorante ancor più grande di prima.
È però un dato di fatto che oggi sono pochi, tra quelli che si rendono veramente conto del peso della responsabilità, quelli che riuscirebbero o vorrebbero essere chiamati maestri. Forse la frammentazione del mondo, forse la complessità dei processi storici e culturali di cui oggi ci si rende conto sempre di più, forse le scoperte delle scienze umanistiche – forse tutto questo messo insieme, crea una difficoltà di “farsi” o di “lasciarsi fare” maestro. Nel mondo cristiano, in modo particolare questo occidentale, il problema si riflette anche nel fatto che si cessa di parlare di direzione o di guida spirituale (le espressioni ormai classiche della tradizione) e si inizia a parlare di accompagnamento (cf. i libri di A. Louf). Il “maestro” allora non tanto guida e rivela, ma accompagna e cerca insieme con il “discepolo”. Dietro questo atteggiamento sta il “principio dialogico” che crede nella verità che si trova in mezzo alle persone piuttosto a quella che potrebbe scendere dal cielo. Spesso allora “un maestro” non vuole essere maestro, anche se in fin dei conti lo è, e non dice: “lo so” o “fai così e così”, ma si esprime con “forse”, “se vuoi”, “proviamo”, ecc. Sono i cambiamenti sottili del linguaggio, ma rivelano sicuramente uno spostamento di fondo che non dovrebbe essere scontato.
Seguendo questa traccia si potrebbe indicare ancora una dimensione, una riflessione, a proposito del maestro nell’epoca contemporanea (che forse è anche una dimensione perenne); si potrebbe chiamarla “maestro nascosto” o “inconsapevole”. Per certi versi questo concetto è stato indicato nel poema di Milosz:
Canzone sulla fine del mondo (Ocalenie (1945) in Cz. Miłosz, Poesie, a cura di P. Marchesani, Biblioteca Adelphi 127, Milano 20003, 35).
Il giorno della fine del mondo
L’ape gira sul fiore del nasturzio,
Il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri delfini,
Giovani passeri si appoggiano alle grondaie
E il serpente ha pelle dorata che ci si aspetta.
Il giorno della fine del mondo
Le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,
L’ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,
I fruttivendoli gridano in strada
E la barca della vela gialla si accosta all’isola,
Il suono del violino si prolunga nell’aria
E disserra la notte stellata.
E chi si aspettava folgori e lampi
Rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
Non crede che già stia avvenendo.
Finché il sole e la luna sono su in alto,
Finché nascono rosei bambini,
Nessuno crede che già stia avvenendo.
Solo un vecchio canuto, che sarebbe un profeta,
Ma profeta non è, perché ha altro da fare,
Dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo.
In questo poema “un vecchio canuto” è insieme segno di disperazione e di speranza a proposito della figura di maestro, è paradossale. Perché da una parte questo vecchio non è un profeta (cioè maestro) o perché non vuole esserlo, o forse perché non ha per chi esserlo? Ma d’altra parte lui è sempre un profeta (un maestro) che pur non essendo visto dagli altri o conscio del suo “ruolo” insegna. Chi coglie il suo gesto, chi capta il suo sguardo, che sente la sua voce – forse sarà istruito (senza che il maestro si renda conto di tutto ciò). In tal caso il mondo sarebbe seminato da tali maestri – basta che i discepoli aprono gli occhi e si mettano alla ricerca della verità che abita nello spirito, che non si sa da dove provenga e dove vada, però passa per di qua.
© Maciej Bielawski (2004)
Il testo è stato pubblicato in:
Michele Colafato (ed.), Maestri. Leadership spirituali: vie, modelli, metodi, Franco Angeli Editore, 2006, pp. 55-74.