Henri Le Saux e Raimon Panikkar:
storia e interpretazione di un’amicizia
Preistoria
Quando Henri Le Saux e Raimon Panikkar si sono incontrati per la prima volta all’inizio del maggio 1957 nel seminario cattolico di Poona, Le Saux aveva quasi 47 anni. Da 27 anni era monaco e da 9 anni si trovava in India dove si è immerso nella spiritualità vedica, ha viaggiato attraverso il subcontinente indiano conoscendone alcune personalità, ma anche ritirandosi periodicamente nella solitudine e nel silenzio. Nondimeno, nel seminario di Poona ha tenuto un corso sul canto gregoriano.
storia e interpretazione di un’amicizia
Preistoria
Quando Henri Le Saux e Raimon Panikkar si sono incontrati per la prima volta all’inizio del maggio 1957 nel seminario cattolico di Poona, Le Saux aveva quasi 47 anni. Da 27 anni era monaco e da 9 anni si trovava in India dove si è immerso nella spiritualità vedica, ha viaggiato attraverso il subcontinente indiano conoscendone alcune personalità, ma anche ritirandosi periodicamente nella solitudine e nel silenzio. Nondimeno, nel seminario di Poona ha tenuto un corso sul canto gregoriano.
Questo era un periodo critico nella vita di Le Saux. L’esperimento della fondazione insieme a Jules Monchanin di un aśram cristiano, la ragione per cui Le Saux è arrivato in India, era praticamente fallito. Egli era anche profondamente angosciato a causa del conflitto, che avvertiva sempre più forte nella sua interiorità, tra la propria identità cristiana e l’esperienza advaitica, tra l’appartenenza alla chiesa cattolica e il desiderio di essere un samnyasin, libero da ogni legame istituzionale, rituale e dottrinale.
Raimon Panikkar, nel momento dell’incontro con Henri Le Saux, aveva quasi 39 anni, è cresciuto in una famiglia pluriculturale, catalano-indiana, nella Spagna. Ha studiato chimica, filosofia e teologia, da 18 anni era membro dell’Opus Dei e da 11 sacerdote. Da alcuni anni cresceva il suo interesse per l’India, mentre la sua relazione con l’Opus Dei si faceva sempre più desa. Nel 1954 RP è partito per l’India, dove quattro anni dopo ha incontrato Le Saux. Otto anni di differenza d’età rendevano questa una relazione tra un anziano e un giovane.
L’uno benedettino senza monastero, l’altro prete senza parrocchia. Ambedue si sentivano e sono stati visti dagli altri come “ibridi”; ambedue hanno subito nelle loro personalità un’educazione caratterizzata da una forte appartenenza istituzionale, e ambedue si trovavano fuori di quelle stesse istituzioni cui appartenevano. Ambedue sentivano l’esigenza di liberarsi dai legami del passato e, nello stesso tempo, desideravano rimanervi fedeli. Le vele delle loro barche esistenziali, anche se fatte di stoffe diverse, erano sconvolte dai medesimi venti.
Henri Le Saux: un Bretone che desiderava essere indiano senza poterlo diventare; un missionario che voleva considerarsi discepolo del popolo che intendeva in qualche modo cristianizzare; un benedettino calvo, rasato e di tradizione latina, che si faceva vagabondo, barbone e capellone, che recitava le Upanishad e voleva allo stesso tempo abbandonare ogni rito, e che nonostante ciò, ovunque andava, porta con se la pietra dell’altare per celebrarvi sopra ogni giorno la sua messa; che quotidianamente recitava il suo breviario, che era visto come straniero dagli indù ed era incompreso dai cristiani.
Raimon Panikkat: una mistione di cultura indiana e catalana, indù e cristiana, che dopo l’immersione nel mondo occidentale e cattolico della madre, ora cercava di recuperare il mondo indiano del padre, ma che, tuttavia, era ancora lontano da una sintesi pacifica. Anche lui era visto come originale e straniero sia da alcuni cristiani che dagli indù, che si rapportavano a questo prete cattolico con una certa qual diffidente riserva.
Però tutti e due si sentivano chiamati da Dio a vivere ed a creare una “simbiosi” tra Oriente e Occidente, tra Vedanta e Cristianesimo, tra Śankara e San Tommaso. Tutti e due sognavano: Le Saux, le grotte di Arunacala popolate dagli asceti cristiani, e Panikkar, il culto eucaristico celebrato nei templi di Śiva.
Intanto il mondo occidentale era stravolto dalla guerra fredda, la Chiesa cattolica gelata sotto lo “stalinismo” di Pio XII. Ma l’India, nonostante i suoi sconvolgimenti socio-politici, offriva loro uno spazio di libertà, uno stimolo alla creatività e il tempo per la ricerca spirituale ed intellettuale. In questo tempo-spazio ambedue erano per certi versi senza passato e senza futuro, ambedue disponevano di un potenziale stupendo. Tutto questo ha contribuito allo sviluppo della loro amicizia.
Storia
Quattro mesi dopo il loro incontro a Puna, Le Saux ha visitato Panikkar a Varanasi (11-29 agosto 1957); già in questo periodo era all’opera tra loro la “chimica dell’amicizia” e i due amici hanno avuto tanto da discutere.
Il 10 ottobre dello stesso anno è morto Julies Monchanen e Le Saux è rimasto da solo a Shantivanam, incerto del suo futuro (temeva il richiamo in Francia), ma nel 1958 ha ricevuto il permesso di esclaustrazione indefinita e di conseguenza ha deciso di non lasciare mai più l’India. Henri Le Saux si trasformava sempre di più in Abishiktananda.
Panikkar abitava in India ma con un piede in Europa: studiava il sanscrito con una suora carmelitana a Bangalor e filosofia indiana a Maysor e a Veranasi, ma contemporaneamente terminava i suoi studi di chimica a Madrid (dottorato: 1958) e in teologia a Roma (dottorato: 1961). Nel 1962-1963 (il periodo del Concilio Vaticano Secondo) insegnava per breve tempo alla Sapienza. È da notare il fatto che in questo periodo egli comincia a firmare i suoi testi come Raimon Panikkar, cioè una versione più “originale” e indiana (malabarese), e non più Raimundo Pániker i Alemany (secondo i registri dell’anagrafe)[1].
Poco dopo il loro primo incontro Panikkar è partito dall'India, ma i due sono rimasti in contatto epistolare. La loro relazione ha il suo culmine tra il 1964 e il 1965, quando Panikkar si è trovato du nuovo in india dopo il quinquennio passato principalmente in Italia. Dal 20 marzo 1964 Le Saux si trovava a Nord dell’India, a Uttarkasi, dove due mesi più tardi (19 maggio) è arrivato Panikkar. Tra il 1 e 7 giugno i due amici hanno compiuto insieme il pellegrinaggio alle sorgenti del Gange, ed poi insieme sono tornati a Veranasi, da dove Le Saux è partito per Shantivanam. Ma finito il periodo delle piogge, in ottobre, Panikkar ha giunto a Shantivanam dove in seguito, sotto il periodo di Natale, ha predicato il ritiro. Finite le feste natalizie, Le Saux e Panikkar hanno compiono il loro secondo pellegrinaggio – questa volta sulle pendici dell’Arunacala, dove hanno visitato la grotta in cui 12 anni prima il monaco bretone ha vissuto, e sulla cima della Montagna hanno celebrato l’eucaristia.
Questi pellegrinaggi erano vissuti e considerati dai nostri protagonisti come gesti simbolici e profetici. A Roma intanto si concludeva il Concilio Vaticano Secondo e loro, pieni di entusiasmo, si consideravano molto più avanti, all’avanguardia, degli stessi padri conciliari riguardo al pensiero e all’attività liturgica e spirituale. Di questi pellegrinaggi, che costituiscono l’apogeo della loro amicizia, sono rimaste le fotografie, spesso riprodotte in diverse pubblicazioni ed articoli.
Ad un certo punto, tuttavia, i percorsi esistenziali di Le Saux e Panikkar hanno cominciato a divergere. Nel 1966 Panikkar è stato espulso dall’Opus Dei e si è incardinato nella diocesi di Venaresi. Per un attimo i due amici sognavano di creare insieme in questa città un centro teologico-spirituale per seminaristi, ma il progetto non è stato realizzato. Panikkar, invitato a Harvard, ha preso la strada dell’insegnamento universitario e come scrittore, dividendosi tra gli Stati Uniti e l’India. Le Saux invece, col rifiuto simbolico di partecipare ad una conferenza in Svizzera, ha voltato le spalle all’Occidente e si tratteneva sempre di più nella regione dell’Himalaia inoltrandosi nella grotta del cuore.
D’ora in poi la loro amicizia è mantenuta e testimoniata principalmente dai loro scritti che si mandavano e si scambiavano, insieme alle lettere. Nel 1967 Le Saux ha pubblicato il suo saggio Una messa alle sorgenti del Gange[2], in cui in modo poetico e teologico ha incluso anche il racconto sui loro due pellegrinaggi, senza però indicare mai Panikkar per nome, ma parlando solo di “un amico”. Allo stesso modo si è comportato Panikkar che, nel suo saggio Advaita e Bhakti (pubblicato nel 1969), dimostrava ad un “compagno di pellegrinaggio” (cioè Le Saux) come secondo lui sia possibile unire agape cristiana e advaita[3].
Sappiamo poi che Le Saux leggeva e rispondeva per iscritto (diario, lettere) ai testi di Panikkar sul Cristo, sulla fede e sul dialogo cristiano-indù. Anche Panikkar leggeva gli scritti dell’amico francese e aveva l’intenzione di preparare per il suo sessantesimo anniversario (1970) un Festschrift, ma Le Saux lo ha dissuaso dal farlo. Dopo il suo primo infarto nel 14 luglio 1973, Le Saux progettava di passare un periodo di riposo proprio nella casa di Panikkar a Veranasi, ma la morte è arrivata prima (7 dicembre), prima ancora che Le Saux stesso abbia letto l’ultima lettera scrittagli a lui Panikkar.
Detto questo, vorrei ora soffermarmi su come i due amici si percepivano reciprocamente e come intendevano la loro relazione.
Raimon Panikkar secundum Le Saux
La prima osservazione è questa: Henri Le Saux ha scritto relativamente poco su Raimon Panikkar. Non tenendo conto delle lettere, che adesso per me risultano inaccessibili nel loro insieme, Panikkar viene menzionato solo poche volte nel diario di Le Saux. La più importante fonte rimane il suo saggio Una messa alle sorgenti di Gange. Il testo fu scritto da La Saux poco tempo dopo il loro pellegrinaggio – dunque le impressioni, anche se letterariamente stilizzate, sono ancora fresche e riflettono lo spirito con cui sono state vissute.
Per Le Saux questo suo “amico” è soprattutto «sacerdote dell’Altissimo, dell’ordine del Signore Gesù Cristo» (p. 51). Ovviamente, anche Le Saux era sacerdote, ma tra ambedue presto si è stabilita la dinamica: sacerdote – monaco. In questa relazione Le Saux giocava il ruolo del monaco mentre Panikkar quello di sacerdote:
«Tu – dice Panikkar nella relazione di Le Saux –, monaco sei qui (in India) nel nome della chiesa, per attingere misticamente alle sacre sorgenti e per condividere con i tuoi fratelli ciò che hai ricevuto nel contatto vivificante. Tu sei come ape, che la chiesa invia a succhiare polline nelle foreste inaccessibili, per raccogliere il miele a favore dei fratelli. Tu sei un sadhu che, simile alle vette innevate, raccoglie acqua dal firmamento, e il tuo dovere è di farla scorrere nella chiesa, senza tuttavia abbandonare il ruolo del Grande Vegliante. Tu sei l’a-cosmico, colui che si mantiene al di sopra dei tempi, fisso alle origini e al compimento.
Io invece sono prete, il lievito gettato dentro la massa per farla fermentare e diventare pasta eucaristica. Io sono il “cosmico”, uno di coloro che il Signore invia nel mondo intero per preparare le sue vie e consacrare la terra, per realizzare nell’uomo e nel mondo l’avvento del Regno» (p. 69).
È da segnalare, sulla base di questo frammento, che: (1) nonostante il scritto sia di le Saux, è Panikkar che qui parla, è lui che definisce i ruoli di ambedue; la polarizzazione: monaco – sacerdote è sua; Le Saux ascolta, tace, gli cammina accanto e riporta semplicemente nel suo scritto le parole dell’amico; (2) ambedue si sentono come pionieri che agiscono nello spazio spirituale e geografico dell’India.
Painkkar era per il monaco francese “non monastico”: «Il mio amico non ci credeva proprio alla vita monastica tradizionale» (p. 67). Riferendosi alla vita del Monte Athos, sia alla vita dei samnyasin dell’India, Panikkar diceva: «è bello, commuovente. Ma tutto ciò non corrisponde a un epoca quasi finita dell’evoluzione religiosa e psicologia dell’uomo?» (p. 69). In effetti Panikkar non era monastico, non era tradizionale, non era a-cosmico, non era a-storico. La realtà era vista da lui come un’evoluzione in cui ormai non c’era più posto per il tipo di monachesimo a cui Le Saux era attratto.
Panikkar per Le Saux era… “un artista”. In che senso? Era incantato dalla bellezza del mondo che lo circonda: «Egli non smetteva di ammirare il cielo, le nevi dai loro riflessi cangianti sotto il sole. Già all’alba mi chiamava per condividere la sua meraviglia quando le grandi vette cominciavano a disegnare le loro forme nel cielo dell’est» (p. 51). C’è qualcosa di poetico e di naif in questo atteggiamento di Panikkar descritto da Le Saux. Ma forse, prendendo in mano i fitti volumi scritti del filosofo di Tavertet, sarebbe bene ricordare che agli occhi di Le Saux, suo amico, lui era non un filosofo, un saggio o un professore, ma un artista. Una intuizione geniale, perché mi sembra che l’intera opera letteraria di Panikkar sia l’affresco di un artista, una sinfonia di concetti eseguita con le parole, una visione più che un vero e proprio sistema filosofico.
Panikkar era per Le Saux un “indù represso” che cercava di ricuperare una parte dimenticata del suo essere: «Sono indù», affermava egli con forza, «e ne sono fiero. Mio padre era indù e, col sangue, mi ha trasmesso tutta l’eredità dei santi e dei profeti di Bharat. Il battesimo non mi ha fatto rinnegare la mia discendenza indù più di quanto abbia fatto rinnegare a Paolo, a Pietro o a Giovanni l’origine ebrea» (p. 52).
Le Saux lo lasciava parlare, ma che ne pensava veramente di questo “mistone” che prima ha rinnegato il mondo del padre e ha cercato un’emancipazione nel mondo euro-cattolico della madre catalana, e ora invece voltava le spalle a questa eredità e si considerava “totalmente” un indù? È da notare che nella sua prima Lettera ad Abishiktananada (1975[4]) Panikkar usa il “noi”, col quale si identifica con gli Indiani al punto da considerarsi (esclusivamente) un Indiano (della sua provenienza catalana tace). Siamo ancora lontani dallo sviluppo in Panikkara di un’autocoscienza che lo porterà – ma solo più tardi! – ad affermare: «sono 100% cristiano e 100% indù». E solo nella “seconda lettera a Abishiktananda”, scritta trent’anni più tardi (2005), Panikkar parlerà della sua doppia provenienza, della sua “doppia appartenenza”, e della madre: «Nella stessa misura sono figlio di mio padre come figlio di mia madre»[5]. Ma questo Le Saux non poteva sentire. Le Saux non ha conosciuto altri 40anni della vita e dello sviluppo di Panikkar.
Importante, in questa visione di Panikkar da parte di Abhishiktananda, mi sembra anche un frammento del suo diario, del 24 ottobre 1966. Le Saux annota che, avendo letto il libro di RP: Cristo sconosciuto dell’induismo, si domanda se sia «il vedanta che tiene la chiave dell’eternità? La chiesa è dunque soltanto per i non risorti, per coloro che non hanno l’esperienza d’asmi (io sono)? Il cristianesimo non è che una soluzione provvisoria per questi uomini, l’immensa maggioranza, che sono coinvolti nel samsara. Ha realizzato egli ciò che ha scritto?»[6] – e qui si interrompe la trascrizione originale e l’edizione del suo diario procurata da Panikkar. Che cosa è stato scritto dopo? Abbiamo qui a che fare con una “censura”? Importantissima rimane proprio la domanda di Le Saux a proposito di Panikkar: «Ha realizzato egli ciò che ha scritto?», che forse riassume tutto il suo atteggiamento nei confronti dell’amico.
Henri Le Saux secundum Panikkar
Nel panorama degli scritti di Panikkar le pagine (non poche) dedicate a Henri Le Saux sono un’eccezione. Il filosofo di Tavertet non ha dedicato a nessuno dei suoi contemporanei tanta attenzione: (1) la sua prima lettera a Abhishiktananda del 1975; (2) l’edizione del diario di Le Saux con le sue prefazioni del 1982-1986 e un’aggiunta all’edizione italiana del 2002; (3) la sua seconda lettera ad Abhishiktananda posta all’inizio della biografia di Shirley du Boulay (2005); (4) diversi interventi a proposito di Le Saux, tra cui un filmato accessibile persino in youtube.
Panikkar, soprattutto nella sua prima lettera ad Abhishiktananda, ha creato un vero e proprio ritratto di Le Saux. Un ritratto geniale, in cui non si sa cosa ammirare di più: la persona dipinta (così bella) o il pittore (così bravo). Una cosa è certa: senza Panikkar e i suoi scritti su Le Saux la nostra conoscenza e comprensione della vita, della persona e dell’opera di questo monaco francese sarebbero diverse. Panikkar ha scritto che Henri Le Saux è stato “un paradigma” per gli altri, ma bisogna dire che non meno paradigmatica è tutta l’interpretazione della persona di Le Saux fatta da Panikkar.
Quella tra Le Saux e Panikkar è stata un’amicizia particolare. I due rimasero in contatto per 16 anni – mentre Panikkar vi ha riflettuto, parlato e scritto dopo la morte del suo amico ancora per più di 35 anni. Panikkar si è considerato “un confidente” di Le Saux – non sappiamo se anche Panikkar si confidasse con Abhishiktananda. Panikkar si considera “un difensore” di Le Saux e un vero e proprio ermeneuta e interprete della sua vita, della sua esperienza e dei suoi scritti – ritenendo di poterne vedere e capire più di quanto lo stesso Le Saux in effetti vedeva, capiva e riusciva a dire di se stesso.
Ritengo si possa parlare proprio di un “Henri Le Saux panikkariano”, che domina la nostra attuale visione di Le Saux. Siamo condizionati cioè da un geniale ritratto che Panikkar ha fatto del suo amico. Quale Le Saux emerge da tale “ritratto panikkariano”?
Abhishiktananda risulta soprattutto una figura bipolare, diviso tra due estremi contrapposti. Panikkar lo dipinge sempre con colori forti e contrastanti: bianco – nero o giallo – azzurro. Ecco la lista dei bipolarismi che incontriamo negli scritti di Panikkar su Le Saux: Francia – Indie, Occidente – Oriente, cristianesimo – advaita, ortodossia – ortoprassi, logos – pneuma, formulazioni – esperienza, immanenza – trascendenza, cristiano ecclesiale – monaco svincolato di tutto, umano – a-cosmico, teoria – esperimento, vangelo – teologia, fallito – riuscito. Ovviamente ognuno di questi bipolarismi richiederebbe una spiegazione, ma mi astengo.
La figura di Le Saux è idealizzata. Lui vive pienamente tutti questi estremi e subisce al massimo la tensione che esiste tra loro. Mentalmente è il più occidentale di tutti gli occidentali e dal punto di vista della sua condotta ascetica è più indù degli indù. Anche quando Panikkar cerca di umanizzare la figura del suo amico parlando delle sue “debolezze”, lo fa in modo che queste appaiono belle ed eroiche nelle loro imperfezioni.
Abhishiktananda secondo Panikkar è un asceta radicale e un poeta mistico eccezionale. È uomo con una forte tendenza a-cosmica, e tuttavia uno che è riuscito ad essere anche pienamente umano senza rendersene conto (infatti così lo vedeva e ne godeva Panikkar, ma non Le Saux stesso). E fu proprio questo a-cosmismo di Abhishiktananda che impedì a Panikkar di rimanere con lui più a lungo. Panikkar risulta un ammiratore e un ermeneuta di Le Saux – non un suo discepolo.
Le Saux è visto da Panikkar come un uomo che si sviluppa e perfeziona. Vive le tensioni tra tanti poli opposti con un’angoscia profonda ed estesa nel tempo, ma alla fine della sua vita raggiunge un compimento, una pienezza, e gli estremi opposti si armonizzano, permettendogli di raggiungere un perfetto equilibrio. Tuttavia questa è una tipica pennellata dell’agiografia orientale – uno uomo realizzato è un illuminato che passa all’altra riva e non ri-nasce più.
Invece, l’aspetto occidentale messo in rilievo da Panikkar è qualcosa che oserei chiamare col nome di “messianismo”. Sì! Le Saux è visto e presentato da Panikkar non solo come una figura paradigmatica, come un esempio, come un pioniere, ma anche come un “messia”, perché con la sua vita compie un opera “per noi”, e perciò noi dobbiamo “renderli grazie”. E Panikkar lo fa – nei suoi scritti – a nome suo e nostro.
Conoscendo l’opera di Panikkar si ha l’impressione che Le Saux sia stato visto e poi descritto attraverso il prisma del “sistema”, della visione cosmoteandrica dello stesso Panikkar. Abhishiktananda è stato inserito in questo sistema, cioè dipinto con questi colori e nello stesso stile di tutta l’opera di Panikkar. Come ho detto in precedenza, si può parlare di un “Le Saux panikkariano”, e a causa della genialità e dell’imponenza di questo ritratto sarebbe molto difficile concepire ormai Le Saux in modo diverso. Questo non vuol dire però che l’interpretazione di Panikkar sia falsa – è semplicemente panikkariana; e forse si potrebbe pure invertire il percorso e affermare che la visione panikkariana, almeno per certi versi, sia ispirata dalla presenza e dalla personalità di Henri Le Saux.
Una relazione advaitica
La relazione tra Abhishiktananda e Panikkar, come tutte le relazioni, non era simmetrica. Credo che Le Saux sia stato molto più importante per Panikkar di quanto lo fosse Painkkar per Le Saux. Però la nostra visione di questa relazione è dominata e condizionata dalla testimonianza e dell’interpretazione di Panikkar.
Il filosofo di Tavertet, nella sua seconda lettera ad Abhishiktananda, definisce la loro amicizia come “advaitica”. Usando un’altra espressione, coniata da Panikkar, si potrebbe parlare anche di relazione “inter-in-dipendente”.
In ogni caso si tratta di un rapporto di un certo tipo che mi sembra di poter definire nel modo seguente: Le Saux è l’uomo dell’esperienza – Panikkar, del pensiero; Le Saux tende verso il silenzio e distrugge i suoi scritti – Panikkar parla, scrive e pubblica anche i diari di Le Saux, o almeno quello che ne rimane, dato che parte è andato distrutto dall’autore stesso; Le Saux è unilaterale (figlio del Parmenide) – Panikkar è plurilaterale (figlio dell’advaita); Le Saux è diviso tra due poli, tra due amori – Panikkar riesce ad armonizzare nella sua vita i diversi poli opposti; Le Saux è angosciato, teso e scettico – Panikkar è ottimista, sereno, gioioso e giocoso; Le Saux non comprende se stesso – Panikkar paradossalmente ritiene di comprenderlo, e lo spiega agli altri; Le Saux non si difende – Panikkar lo difende; Le Saux è a-cosmico – Panikkar è cosmico (più tardi dirà “cosmoteandrico”); Le Saux è monastico – Panikkar è sacerdotale.
Panikkar trovava difficile l’a-cosmismo del suo amico francese, perciò ne cercava i tratti umani. Abhishiktananda invece forse era meno attirato da questo intellettuale che fisicamente, esistenzialmente e mentalmente, con tanta facilità si muoveva tra Oriente ed Occidente, che scriveva tanto e che tutto sempre riusciva a spiegare in un modo assai facile, snello ed armonioso.
Tali differenze e contrasti hanno funzionato forse proprio come calamite, come opposti che si attirano e si completano. Forse uno vedeva nell’altro quello che a lui stesso mancava o che era in lui stesso nascosto: Le Saux coglieva in Panikkar quell’unione tra Oriente ed Occidente, tra induismo e cristianesimo, che lui stesso viveva come tensione, e poteva essere anche attirato dalla sua mente agile e perspicace. Invece Panikkar forse vedeva in Le Saux quella determinazione che lui stesso non riteneva di potersi permettere e una rinuncia liberatrice a lui forse non data.
La principale divergenza tra i due può cogliersi nella loro comprensione dell’advaita. Ambedue parlavano dell’advaita, un concetto “chiave” per entrambi. Ambedue pretendevano di averlo sperimentata e cercavano di esprimerlo: Le Saux nel suo teso balbettare, Panikkar nel suo elaborato sistema cosmoteandrico.
Si sa che l’advaita, essendo inesprimibile, può essere “compreso” e “spiegato” in diversi modi. Mi pare che la comprensione dell’advaita da parte di Le Saux sia più vicina a quella di Śankara. Nell’advaita di Le Saux ogni dualismo sparisce. Da qui proveniva la sua tendenza a-cosmica e il suo tormento, perché non voleva vedere dissolto nell’advaita il suo cristianesimo.
Invece l’advaita di Panikar è un’interpretazione originale e per certi versi nuova: per lui “advaita” non significa eliminazione di due poli attraverso la reductio ad unum, ma uno stato in cui i due poli con-vivono armonicamente, si compenetrano, si fecondano reciprocamente. I due poli (il dualismo) non scompaiono, ma si armonizzano.
La mia domanda a Panikkar potrebbe allora essere questa: il suo modo di comprendere l’advaita è ispirato dall’esperienza di Le Saux? O forse Le Saux ha vissuto tutt’altra cosa, e invece Panikkar ha interpretato tutta la vita di Le Saux “soltanto” alla luce della propria teoria dell’advaita armonizzata e armonizzante?
Se la relazione tra Henri Le Saux e Raimon Panikkar era (come dice questo secondo) advaitica – di quale advaita in questo caso si tratta: di quello di Abhishiktananda o di quello di Panikkar – o forse di entrambi, in un nuovo gioco advaitico tra le due visioni advaitiche…?
© Maciej Bielawski (2010)
[1] Alemany, cognome della madre, è la versione latina del Alemannus (= tedesco). Invece Pániker è una delle possibili trascrizioni del più originario Panikkar (Malayalam), che proviene dal sanscrito Parinayaka (= capo dei guerrieri).
[2] Cf. Henri Le Saux – Odette Baumer-Despeigne – Raimon Panikkar, Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale, CENS, Milano 1994, pp. 15-76. In seguito riporto nel testo questa edizione indicando tra parentesi il numero delle pagine citate.
[3] Cf. R. Panikkar, “Advaita and Bhakti. A Letter from Vrndavana”, in Bhagawan Das Commemoration Volume, Kashi-Vidyapeeth University, Veransi 1969; la versione italiana “Advaita e bhakti. Un dialogo hindu-cristiano”, in Mito, fede ed ermeneutica, il triplice velo della realtà, Jaca Book, Milano 2000, pp. 275-285.
[4] Cf. Henri Le Saux – Odette Baumer-Despeigne – Raimon Panikkar, Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale, CENS, Milano 1994, pp. 105-152.
[5] Cf. Raimon Panikkar, “Foreword”, in Shirley du Boulay, The Cave of the Heart. The Life of Swami Abhishiktananda, Orbis Books, Marykoll, New York 2005, pp. xiii.
[6] H.Le Saux, Diario spirituale di un monaco cristiano-samnyasin hindu, a cura di R. Panikkar, Mondadori 2002, p. 373.
Raimon Panikkar, nel momento dell’incontro con Henri Le Saux, aveva quasi 39 anni, è cresciuto in una famiglia pluriculturale, catalano-indiana, nella Spagna. Ha studiato chimica, filosofia e teologia, da 18 anni era membro dell’Opus Dei e da 11 sacerdote. Da alcuni anni cresceva il suo interesse per l’India, mentre la sua relazione con l’Opus Dei si faceva sempre più desa. Nel 1954 RP è partito per l’India, dove quattro anni dopo ha incontrato Le Saux. Otto anni di differenza d’età rendevano questa una relazione tra un anziano e un giovane.
L’uno benedettino senza monastero, l’altro prete senza parrocchia. Ambedue si sentivano e sono stati visti dagli altri come “ibridi”; ambedue hanno subito nelle loro personalità un’educazione caratterizzata da una forte appartenenza istituzionale, e ambedue si trovavano fuori di quelle stesse istituzioni cui appartenevano. Ambedue sentivano l’esigenza di liberarsi dai legami del passato e, nello stesso tempo, desideravano rimanervi fedeli. Le vele delle loro barche esistenziali, anche se fatte di stoffe diverse, erano sconvolte dai medesimi venti.
Henri Le Saux: un Bretone che desiderava essere indiano senza poterlo diventare; un missionario che voleva considerarsi discepolo del popolo che intendeva in qualche modo cristianizzare; un benedettino calvo, rasato e di tradizione latina, che si faceva vagabondo, barbone e capellone, che recitava le Upanishad e voleva allo stesso tempo abbandonare ogni rito, e che nonostante ciò, ovunque andava, porta con se la pietra dell’altare per celebrarvi sopra ogni giorno la sua messa; che quotidianamente recitava il suo breviario, che era visto come straniero dagli indù ed era incompreso dai cristiani.
Raimon Panikkat: una mistione di cultura indiana e catalana, indù e cristiana, che dopo l’immersione nel mondo occidentale e cattolico della madre, ora cercava di recuperare il mondo indiano del padre, ma che, tuttavia, era ancora lontano da una sintesi pacifica. Anche lui era visto come originale e straniero sia da alcuni cristiani che dagli indù, che si rapportavano a questo prete cattolico con una certa qual diffidente riserva.
Però tutti e due si sentivano chiamati da Dio a vivere ed a creare una “simbiosi” tra Oriente e Occidente, tra Vedanta e Cristianesimo, tra Śankara e San Tommaso. Tutti e due sognavano: Le Saux, le grotte di Arunacala popolate dagli asceti cristiani, e Panikkar, il culto eucaristico celebrato nei templi di Śiva.
Intanto il mondo occidentale era stravolto dalla guerra fredda, la Chiesa cattolica gelata sotto lo “stalinismo” di Pio XII. Ma l’India, nonostante i suoi sconvolgimenti socio-politici, offriva loro uno spazio di libertà, uno stimolo alla creatività e il tempo per la ricerca spirituale ed intellettuale. In questo tempo-spazio ambedue erano per certi versi senza passato e senza futuro, ambedue disponevano di un potenziale stupendo. Tutto questo ha contribuito allo sviluppo della loro amicizia.
Storia
Quattro mesi dopo il loro incontro a Puna, Le Saux ha visitato Panikkar a Varanasi (11-29 agosto 1957); già in questo periodo era all’opera tra loro la “chimica dell’amicizia” e i due amici hanno avuto tanto da discutere.
Il 10 ottobre dello stesso anno è morto Julies Monchanen e Le Saux è rimasto da solo a Shantivanam, incerto del suo futuro (temeva il richiamo in Francia), ma nel 1958 ha ricevuto il permesso di esclaustrazione indefinita e di conseguenza ha deciso di non lasciare mai più l’India. Henri Le Saux si trasformava sempre di più in Abishiktananda.
Panikkar abitava in India ma con un piede in Europa: studiava il sanscrito con una suora carmelitana a Bangalor e filosofia indiana a Maysor e a Veranasi, ma contemporaneamente terminava i suoi studi di chimica a Madrid (dottorato: 1958) e in teologia a Roma (dottorato: 1961). Nel 1962-1963 (il periodo del Concilio Vaticano Secondo) insegnava per breve tempo alla Sapienza. È da notare il fatto che in questo periodo egli comincia a firmare i suoi testi come Raimon Panikkar, cioè una versione più “originale” e indiana (malabarese), e non più Raimundo Pániker i Alemany (secondo i registri dell’anagrafe)[1].
Poco dopo il loro primo incontro Panikkar è partito dall'India, ma i due sono rimasti in contatto epistolare. La loro relazione ha il suo culmine tra il 1964 e il 1965, quando Panikkar si è trovato du nuovo in india dopo il quinquennio passato principalmente in Italia. Dal 20 marzo 1964 Le Saux si trovava a Nord dell’India, a Uttarkasi, dove due mesi più tardi (19 maggio) è arrivato Panikkar. Tra il 1 e 7 giugno i due amici hanno compiuto insieme il pellegrinaggio alle sorgenti del Gange, ed poi insieme sono tornati a Veranasi, da dove Le Saux è partito per Shantivanam. Ma finito il periodo delle piogge, in ottobre, Panikkar ha giunto a Shantivanam dove in seguito, sotto il periodo di Natale, ha predicato il ritiro. Finite le feste natalizie, Le Saux e Panikkar hanno compiono il loro secondo pellegrinaggio – questa volta sulle pendici dell’Arunacala, dove hanno visitato la grotta in cui 12 anni prima il monaco bretone ha vissuto, e sulla cima della Montagna hanno celebrato l’eucaristia.
Questi pellegrinaggi erano vissuti e considerati dai nostri protagonisti come gesti simbolici e profetici. A Roma intanto si concludeva il Concilio Vaticano Secondo e loro, pieni di entusiasmo, si consideravano molto più avanti, all’avanguardia, degli stessi padri conciliari riguardo al pensiero e all’attività liturgica e spirituale. Di questi pellegrinaggi, che costituiscono l’apogeo della loro amicizia, sono rimaste le fotografie, spesso riprodotte in diverse pubblicazioni ed articoli.
Ad un certo punto, tuttavia, i percorsi esistenziali di Le Saux e Panikkar hanno cominciato a divergere. Nel 1966 Panikkar è stato espulso dall’Opus Dei e si è incardinato nella diocesi di Venaresi. Per un attimo i due amici sognavano di creare insieme in questa città un centro teologico-spirituale per seminaristi, ma il progetto non è stato realizzato. Panikkar, invitato a Harvard, ha preso la strada dell’insegnamento universitario e come scrittore, dividendosi tra gli Stati Uniti e l’India. Le Saux invece, col rifiuto simbolico di partecipare ad una conferenza in Svizzera, ha voltato le spalle all’Occidente e si tratteneva sempre di più nella regione dell’Himalaia inoltrandosi nella grotta del cuore.
D’ora in poi la loro amicizia è mantenuta e testimoniata principalmente dai loro scritti che si mandavano e si scambiavano, insieme alle lettere. Nel 1967 Le Saux ha pubblicato il suo saggio Una messa alle sorgenti del Gange[2], in cui in modo poetico e teologico ha incluso anche il racconto sui loro due pellegrinaggi, senza però indicare mai Panikkar per nome, ma parlando solo di “un amico”. Allo stesso modo si è comportato Panikkar che, nel suo saggio Advaita e Bhakti (pubblicato nel 1969), dimostrava ad un “compagno di pellegrinaggio” (cioè Le Saux) come secondo lui sia possibile unire agape cristiana e advaita[3].
Sappiamo poi che Le Saux leggeva e rispondeva per iscritto (diario, lettere) ai testi di Panikkar sul Cristo, sulla fede e sul dialogo cristiano-indù. Anche Panikkar leggeva gli scritti dell’amico francese e aveva l’intenzione di preparare per il suo sessantesimo anniversario (1970) un Festschrift, ma Le Saux lo ha dissuaso dal farlo. Dopo il suo primo infarto nel 14 luglio 1973, Le Saux progettava di passare un periodo di riposo proprio nella casa di Panikkar a Veranasi, ma la morte è arrivata prima (7 dicembre), prima ancora che Le Saux stesso abbia letto l’ultima lettera scrittagli a lui Panikkar.
Detto questo, vorrei ora soffermarmi su come i due amici si percepivano reciprocamente e come intendevano la loro relazione.
Raimon Panikkar secundum Le Saux
La prima osservazione è questa: Henri Le Saux ha scritto relativamente poco su Raimon Panikkar. Non tenendo conto delle lettere, che adesso per me risultano inaccessibili nel loro insieme, Panikkar viene menzionato solo poche volte nel diario di Le Saux. La più importante fonte rimane il suo saggio Una messa alle sorgenti di Gange. Il testo fu scritto da La Saux poco tempo dopo il loro pellegrinaggio – dunque le impressioni, anche se letterariamente stilizzate, sono ancora fresche e riflettono lo spirito con cui sono state vissute.
Per Le Saux questo suo “amico” è soprattutto «sacerdote dell’Altissimo, dell’ordine del Signore Gesù Cristo» (p. 51). Ovviamente, anche Le Saux era sacerdote, ma tra ambedue presto si è stabilita la dinamica: sacerdote – monaco. In questa relazione Le Saux giocava il ruolo del monaco mentre Panikkar quello di sacerdote:
«Tu – dice Panikkar nella relazione di Le Saux –, monaco sei qui (in India) nel nome della chiesa, per attingere misticamente alle sacre sorgenti e per condividere con i tuoi fratelli ciò che hai ricevuto nel contatto vivificante. Tu sei come ape, che la chiesa invia a succhiare polline nelle foreste inaccessibili, per raccogliere il miele a favore dei fratelli. Tu sei un sadhu che, simile alle vette innevate, raccoglie acqua dal firmamento, e il tuo dovere è di farla scorrere nella chiesa, senza tuttavia abbandonare il ruolo del Grande Vegliante. Tu sei l’a-cosmico, colui che si mantiene al di sopra dei tempi, fisso alle origini e al compimento.
Io invece sono prete, il lievito gettato dentro la massa per farla fermentare e diventare pasta eucaristica. Io sono il “cosmico”, uno di coloro che il Signore invia nel mondo intero per preparare le sue vie e consacrare la terra, per realizzare nell’uomo e nel mondo l’avvento del Regno» (p. 69).
È da segnalare, sulla base di questo frammento, che: (1) nonostante il scritto sia di le Saux, è Panikkar che qui parla, è lui che definisce i ruoli di ambedue; la polarizzazione: monaco – sacerdote è sua; Le Saux ascolta, tace, gli cammina accanto e riporta semplicemente nel suo scritto le parole dell’amico; (2) ambedue si sentono come pionieri che agiscono nello spazio spirituale e geografico dell’India.
Painkkar era per il monaco francese “non monastico”: «Il mio amico non ci credeva proprio alla vita monastica tradizionale» (p. 67). Riferendosi alla vita del Monte Athos, sia alla vita dei samnyasin dell’India, Panikkar diceva: «è bello, commuovente. Ma tutto ciò non corrisponde a un epoca quasi finita dell’evoluzione religiosa e psicologia dell’uomo?» (p. 69). In effetti Panikkar non era monastico, non era tradizionale, non era a-cosmico, non era a-storico. La realtà era vista da lui come un’evoluzione in cui ormai non c’era più posto per il tipo di monachesimo a cui Le Saux era attratto.
Panikkar per Le Saux era… “un artista”. In che senso? Era incantato dalla bellezza del mondo che lo circonda: «Egli non smetteva di ammirare il cielo, le nevi dai loro riflessi cangianti sotto il sole. Già all’alba mi chiamava per condividere la sua meraviglia quando le grandi vette cominciavano a disegnare le loro forme nel cielo dell’est» (p. 51). C’è qualcosa di poetico e di naif in questo atteggiamento di Panikkar descritto da Le Saux. Ma forse, prendendo in mano i fitti volumi scritti del filosofo di Tavertet, sarebbe bene ricordare che agli occhi di Le Saux, suo amico, lui era non un filosofo, un saggio o un professore, ma un artista. Una intuizione geniale, perché mi sembra che l’intera opera letteraria di Panikkar sia l’affresco di un artista, una sinfonia di concetti eseguita con le parole, una visione più che un vero e proprio sistema filosofico.
Panikkar era per Le Saux un “indù represso” che cercava di ricuperare una parte dimenticata del suo essere: «Sono indù», affermava egli con forza, «e ne sono fiero. Mio padre era indù e, col sangue, mi ha trasmesso tutta l’eredità dei santi e dei profeti di Bharat. Il battesimo non mi ha fatto rinnegare la mia discendenza indù più di quanto abbia fatto rinnegare a Paolo, a Pietro o a Giovanni l’origine ebrea» (p. 52).
Le Saux lo lasciava parlare, ma che ne pensava veramente di questo “mistone” che prima ha rinnegato il mondo del padre e ha cercato un’emancipazione nel mondo euro-cattolico della madre catalana, e ora invece voltava le spalle a questa eredità e si considerava “totalmente” un indù? È da notare che nella sua prima Lettera ad Abishiktananada (1975[4]) Panikkar usa il “noi”, col quale si identifica con gli Indiani al punto da considerarsi (esclusivamente) un Indiano (della sua provenienza catalana tace). Siamo ancora lontani dallo sviluppo in Panikkara di un’autocoscienza che lo porterà – ma solo più tardi! – ad affermare: «sono 100% cristiano e 100% indù». E solo nella “seconda lettera a Abishiktananda”, scritta trent’anni più tardi (2005), Panikkar parlerà della sua doppia provenienza, della sua “doppia appartenenza”, e della madre: «Nella stessa misura sono figlio di mio padre come figlio di mia madre»[5]. Ma questo Le Saux non poteva sentire. Le Saux non ha conosciuto altri 40anni della vita e dello sviluppo di Panikkar.
Importante, in questa visione di Panikkar da parte di Abhishiktananda, mi sembra anche un frammento del suo diario, del 24 ottobre 1966. Le Saux annota che, avendo letto il libro di RP: Cristo sconosciuto dell’induismo, si domanda se sia «il vedanta che tiene la chiave dell’eternità? La chiesa è dunque soltanto per i non risorti, per coloro che non hanno l’esperienza d’asmi (io sono)? Il cristianesimo non è che una soluzione provvisoria per questi uomini, l’immensa maggioranza, che sono coinvolti nel samsara. Ha realizzato egli ciò che ha scritto?»[6] – e qui si interrompe la trascrizione originale e l’edizione del suo diario procurata da Panikkar. Che cosa è stato scritto dopo? Abbiamo qui a che fare con una “censura”? Importantissima rimane proprio la domanda di Le Saux a proposito di Panikkar: «Ha realizzato egli ciò che ha scritto?», che forse riassume tutto il suo atteggiamento nei confronti dell’amico.
Henri Le Saux secundum Panikkar
Nel panorama degli scritti di Panikkar le pagine (non poche) dedicate a Henri Le Saux sono un’eccezione. Il filosofo di Tavertet non ha dedicato a nessuno dei suoi contemporanei tanta attenzione: (1) la sua prima lettera a Abhishiktananda del 1975; (2) l’edizione del diario di Le Saux con le sue prefazioni del 1982-1986 e un’aggiunta all’edizione italiana del 2002; (3) la sua seconda lettera ad Abhishiktananda posta all’inizio della biografia di Shirley du Boulay (2005); (4) diversi interventi a proposito di Le Saux, tra cui un filmato accessibile persino in youtube.
Panikkar, soprattutto nella sua prima lettera ad Abhishiktananda, ha creato un vero e proprio ritratto di Le Saux. Un ritratto geniale, in cui non si sa cosa ammirare di più: la persona dipinta (così bella) o il pittore (così bravo). Una cosa è certa: senza Panikkar e i suoi scritti su Le Saux la nostra conoscenza e comprensione della vita, della persona e dell’opera di questo monaco francese sarebbero diverse. Panikkar ha scritto che Henri Le Saux è stato “un paradigma” per gli altri, ma bisogna dire che non meno paradigmatica è tutta l’interpretazione della persona di Le Saux fatta da Panikkar.
Quella tra Le Saux e Panikkar è stata un’amicizia particolare. I due rimasero in contatto per 16 anni – mentre Panikkar vi ha riflettuto, parlato e scritto dopo la morte del suo amico ancora per più di 35 anni. Panikkar si è considerato “un confidente” di Le Saux – non sappiamo se anche Panikkar si confidasse con Abhishiktananda. Panikkar si considera “un difensore” di Le Saux e un vero e proprio ermeneuta e interprete della sua vita, della sua esperienza e dei suoi scritti – ritenendo di poterne vedere e capire più di quanto lo stesso Le Saux in effetti vedeva, capiva e riusciva a dire di se stesso.
Ritengo si possa parlare proprio di un “Henri Le Saux panikkariano”, che domina la nostra attuale visione di Le Saux. Siamo condizionati cioè da un geniale ritratto che Panikkar ha fatto del suo amico. Quale Le Saux emerge da tale “ritratto panikkariano”?
Abhishiktananda risulta soprattutto una figura bipolare, diviso tra due estremi contrapposti. Panikkar lo dipinge sempre con colori forti e contrastanti: bianco – nero o giallo – azzurro. Ecco la lista dei bipolarismi che incontriamo negli scritti di Panikkar su Le Saux: Francia – Indie, Occidente – Oriente, cristianesimo – advaita, ortodossia – ortoprassi, logos – pneuma, formulazioni – esperienza, immanenza – trascendenza, cristiano ecclesiale – monaco svincolato di tutto, umano – a-cosmico, teoria – esperimento, vangelo – teologia, fallito – riuscito. Ovviamente ognuno di questi bipolarismi richiederebbe una spiegazione, ma mi astengo.
La figura di Le Saux è idealizzata. Lui vive pienamente tutti questi estremi e subisce al massimo la tensione che esiste tra loro. Mentalmente è il più occidentale di tutti gli occidentali e dal punto di vista della sua condotta ascetica è più indù degli indù. Anche quando Panikkar cerca di umanizzare la figura del suo amico parlando delle sue “debolezze”, lo fa in modo che queste appaiono belle ed eroiche nelle loro imperfezioni.
Abhishiktananda secondo Panikkar è un asceta radicale e un poeta mistico eccezionale. È uomo con una forte tendenza a-cosmica, e tuttavia uno che è riuscito ad essere anche pienamente umano senza rendersene conto (infatti così lo vedeva e ne godeva Panikkar, ma non Le Saux stesso). E fu proprio questo a-cosmismo di Abhishiktananda che impedì a Panikkar di rimanere con lui più a lungo. Panikkar risulta un ammiratore e un ermeneuta di Le Saux – non un suo discepolo.
Le Saux è visto da Panikkar come un uomo che si sviluppa e perfeziona. Vive le tensioni tra tanti poli opposti con un’angoscia profonda ed estesa nel tempo, ma alla fine della sua vita raggiunge un compimento, una pienezza, e gli estremi opposti si armonizzano, permettendogli di raggiungere un perfetto equilibrio. Tuttavia questa è una tipica pennellata dell’agiografia orientale – uno uomo realizzato è un illuminato che passa all’altra riva e non ri-nasce più.
Invece, l’aspetto occidentale messo in rilievo da Panikkar è qualcosa che oserei chiamare col nome di “messianismo”. Sì! Le Saux è visto e presentato da Panikkar non solo come una figura paradigmatica, come un esempio, come un pioniere, ma anche come un “messia”, perché con la sua vita compie un opera “per noi”, e perciò noi dobbiamo “renderli grazie”. E Panikkar lo fa – nei suoi scritti – a nome suo e nostro.
Conoscendo l’opera di Panikkar si ha l’impressione che Le Saux sia stato visto e poi descritto attraverso il prisma del “sistema”, della visione cosmoteandrica dello stesso Panikkar. Abhishiktananda è stato inserito in questo sistema, cioè dipinto con questi colori e nello stesso stile di tutta l’opera di Panikkar. Come ho detto in precedenza, si può parlare di un “Le Saux panikkariano”, e a causa della genialità e dell’imponenza di questo ritratto sarebbe molto difficile concepire ormai Le Saux in modo diverso. Questo non vuol dire però che l’interpretazione di Panikkar sia falsa – è semplicemente panikkariana; e forse si potrebbe pure invertire il percorso e affermare che la visione panikkariana, almeno per certi versi, sia ispirata dalla presenza e dalla personalità di Henri Le Saux.
Una relazione advaitica
La relazione tra Abhishiktananda e Panikkar, come tutte le relazioni, non era simmetrica. Credo che Le Saux sia stato molto più importante per Panikkar di quanto lo fosse Painkkar per Le Saux. Però la nostra visione di questa relazione è dominata e condizionata dalla testimonianza e dell’interpretazione di Panikkar.
Il filosofo di Tavertet, nella sua seconda lettera ad Abhishiktananda, definisce la loro amicizia come “advaitica”. Usando un’altra espressione, coniata da Panikkar, si potrebbe parlare anche di relazione “inter-in-dipendente”.
In ogni caso si tratta di un rapporto di un certo tipo che mi sembra di poter definire nel modo seguente: Le Saux è l’uomo dell’esperienza – Panikkar, del pensiero; Le Saux tende verso il silenzio e distrugge i suoi scritti – Panikkar parla, scrive e pubblica anche i diari di Le Saux, o almeno quello che ne rimane, dato che parte è andato distrutto dall’autore stesso; Le Saux è unilaterale (figlio del Parmenide) – Panikkar è plurilaterale (figlio dell’advaita); Le Saux è diviso tra due poli, tra due amori – Panikkar riesce ad armonizzare nella sua vita i diversi poli opposti; Le Saux è angosciato, teso e scettico – Panikkar è ottimista, sereno, gioioso e giocoso; Le Saux non comprende se stesso – Panikkar paradossalmente ritiene di comprenderlo, e lo spiega agli altri; Le Saux non si difende – Panikkar lo difende; Le Saux è a-cosmico – Panikkar è cosmico (più tardi dirà “cosmoteandrico”); Le Saux è monastico – Panikkar è sacerdotale.
Panikkar trovava difficile l’a-cosmismo del suo amico francese, perciò ne cercava i tratti umani. Abhishiktananda invece forse era meno attirato da questo intellettuale che fisicamente, esistenzialmente e mentalmente, con tanta facilità si muoveva tra Oriente ed Occidente, che scriveva tanto e che tutto sempre riusciva a spiegare in un modo assai facile, snello ed armonioso.
Tali differenze e contrasti hanno funzionato forse proprio come calamite, come opposti che si attirano e si completano. Forse uno vedeva nell’altro quello che a lui stesso mancava o che era in lui stesso nascosto: Le Saux coglieva in Panikkar quell’unione tra Oriente ed Occidente, tra induismo e cristianesimo, che lui stesso viveva come tensione, e poteva essere anche attirato dalla sua mente agile e perspicace. Invece Panikkar forse vedeva in Le Saux quella determinazione che lui stesso non riteneva di potersi permettere e una rinuncia liberatrice a lui forse non data.
La principale divergenza tra i due può cogliersi nella loro comprensione dell’advaita. Ambedue parlavano dell’advaita, un concetto “chiave” per entrambi. Ambedue pretendevano di averlo sperimentata e cercavano di esprimerlo: Le Saux nel suo teso balbettare, Panikkar nel suo elaborato sistema cosmoteandrico.
Si sa che l’advaita, essendo inesprimibile, può essere “compreso” e “spiegato” in diversi modi. Mi pare che la comprensione dell’advaita da parte di Le Saux sia più vicina a quella di Śankara. Nell’advaita di Le Saux ogni dualismo sparisce. Da qui proveniva la sua tendenza a-cosmica e il suo tormento, perché non voleva vedere dissolto nell’advaita il suo cristianesimo.
Invece l’advaita di Panikar è un’interpretazione originale e per certi versi nuova: per lui “advaita” non significa eliminazione di due poli attraverso la reductio ad unum, ma uno stato in cui i due poli con-vivono armonicamente, si compenetrano, si fecondano reciprocamente. I due poli (il dualismo) non scompaiono, ma si armonizzano.
La mia domanda a Panikkar potrebbe allora essere questa: il suo modo di comprendere l’advaita è ispirato dall’esperienza di Le Saux? O forse Le Saux ha vissuto tutt’altra cosa, e invece Panikkar ha interpretato tutta la vita di Le Saux “soltanto” alla luce della propria teoria dell’advaita armonizzata e armonizzante?
Se la relazione tra Henri Le Saux e Raimon Panikkar era (come dice questo secondo) advaitica – di quale advaita in questo caso si tratta: di quello di Abhishiktananda o di quello di Panikkar – o forse di entrambi, in un nuovo gioco advaitico tra le due visioni advaitiche…?
© Maciej Bielawski (2010)
[1] Alemany, cognome della madre, è la versione latina del Alemannus (= tedesco). Invece Pániker è una delle possibili trascrizioni del più originario Panikkar (Malayalam), che proviene dal sanscrito Parinayaka (= capo dei guerrieri).
[2] Cf. Henri Le Saux – Odette Baumer-Despeigne – Raimon Panikkar, Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale, CENS, Milano 1994, pp. 15-76. In seguito riporto nel testo questa edizione indicando tra parentesi il numero delle pagine citate.
[3] Cf. R. Panikkar, “Advaita and Bhakti. A Letter from Vrndavana”, in Bhagawan Das Commemoration Volume, Kashi-Vidyapeeth University, Veransi 1969; la versione italiana “Advaita e bhakti. Un dialogo hindu-cristiano”, in Mito, fede ed ermeneutica, il triplice velo della realtà, Jaca Book, Milano 2000, pp. 275-285.
[4] Cf. Henri Le Saux – Odette Baumer-Despeigne – Raimon Panikkar, Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale, CENS, Milano 1994, pp. 105-152.
[5] Cf. Raimon Panikkar, “Foreword”, in Shirley du Boulay, The Cave of the Heart. The Life of Swami Abhishiktananda, Orbis Books, Marykoll, New York 2005, pp. xiii.
[6] H.Le Saux, Diario spirituale di un monaco cristiano-samnyasin hindu, a cura di R. Panikkar, Mondadori 2002, p. 373.