Cioran: Solitudine nel solaio del mondo
Ha deriso coloro che avrebbero voluto scrivere di lui. Ha detestato e per questo anche impedito qualsiasi commento al suo pensiero. Anche in questo modo voleva rimanere un solitario. Poi si è espresso assai criticamente su coloro che, secondo lui, non avendo niente da dire, scrivono sugli altri – anche se lui stesso pubblicando il libretto Esercizi di ammirazione con saggi su persone da lui studiate, ammirate o conosciute, ha schiuso, in qualche modo, la possibilità di scrivere anche sul suo conto. E poiché sono ormai trascorsi anni da quando leggo Cioran, non posso fare a meno di formulare per iscritto alcuni pensieri su di lui. È un certo dialogo instaurato con lui, che mi spinge a farlo; uomo strano e fuggiasco, alcune volte mi innervosisce, ma è un interlocutore interessantissimo e intrigante.
Ha deriso coloro che avrebbero voluto scrivere di lui. Ha detestato e per questo anche impedito qualsiasi commento al suo pensiero. Anche in questo modo voleva rimanere un solitario. Poi si è espresso assai criticamente su coloro che, secondo lui, non avendo niente da dire, scrivono sugli altri – anche se lui stesso pubblicando il libretto Esercizi di ammirazione con saggi su persone da lui studiate, ammirate o conosciute, ha schiuso, in qualche modo, la possibilità di scrivere anche sul suo conto. E poiché sono ormai trascorsi anni da quando leggo Cioran, non posso fare a meno di formulare per iscritto alcuni pensieri su di lui. È un certo dialogo instaurato con lui, che mi spinge a farlo; uomo strano e fuggiasco, alcune volte mi innervosisce, ma è un interlocutore interessantissimo e intrigante.
Cioran mi appare soprattutto come un solitario. Fu uno che si spinse lontano, non in senso geografico, ma interiormente, verso una solitudine spaventosa. La soffitta di Parigi a Rue de l’Odeon in cui visse con Simone Boué per decenni, ne è un simbolo. Questo suo solaio era in qualche modo il luogo più alto e più lontano del Tibet (il solaio del mondo). Da queste vertigini della sue solitudine e della disperazione Cioran osservava la storia, il pensiero e le vicende del genere umano. Rimane senza risposta il “perché” o il “da dove” gli fosse venuta questa tensione a spingersi in continuo e sempre più verso una tal lontananza. C’era in questo atteggiamento qualcosa di eroico e patologico, saggio e perverso, ammirabile e struggente. Non so che cosa Cioran, nella sua esistenza, assai tormentata, cercasse e nel contempo fuggisse.
Era un solitario ma in una grande e grandiosa Parigi. È uno dei suoi paradossi che è anche tipico di tanti contemporanei che immersi nella polis di questo mondo sognano la solitudine e così, pur essendo in una città, passano i propri giorni in un isolamento tremendo. La Parigi di Cioran era ancora il centro, se non del mondo, almeno di alcune correnti della cultura occidentale. Cioran scendendo le scale e uscendo sulle strade del suo quartiere poteva incontrare in uno dei bar J.P. Sartre. Poi dopo due passi poteva perdersi in una delle librerie o degli antiquari, per entrare quindi alla Sorbona e ascoltare qualche profeta del tempo (erano principalmente strutturalisti, analisti e linguisti di tutti i colori, che lui detestava). Uscendo dalla Sorbona poteva entrare nel suo amato parco di Luxemburg dove si salutava per esempio con S. Beckett, per finire la giornata chiacchierando con il suo connazionale E. Ionescu. Durante la notte poteva vagare a lungo per le strade svuotate di questa città discutendo tra sé e con sé quanto aveva visto, udito o letto durante il giorno. Così ottenebrava la ricchezza dell’impatto parigino ma poteva ritrovare il tono che era il suo; con questo i suoi occhi si coprivano di nuovo con il velo di assenza, di solitudine e di negazione.
Perché Cioran era l’incarnazione della negazione. Negava tutto – persino la negazione stessa. Era presente in lui un impeto struggente – distruggeva tutto ciò che esisteva, anche quanto lui stesso creava, distruggeva se stesso. Questa era la sua passione, la sua malattia, la sua forza e la sua condanna. In tale atteggiamento a volte appariva sincero, come un ricercatore della verità assoluta, come uno che voleva cogliere l’essenza oltre tutte le maschere e le illusioni. In ciò è da ammirare. Ma non di rado questo suo modo di agire era un capriccio, una perversione, uno spietato umorismo nero segnato di un pessimo tenore e di un sarcasmo malato. In ciò è irritante. Ogni tanto allora, sotto i suoi scritti, Cioran appare come un tipo saggio, pacato e sofferente per la causa della verità, talvolta sembra un iconoclasta scatenato, isterico, pieno di rabbia. Il suo volto era segnato da una sofferenza da cui non poteva e non voleva fuggire, a volte però era sfiorato da un sorriso sincero. Sul suo viso mi par di scorgere un ghigno stigmatizzato dalla dolorosa ricerca della verità e contemporaneamente da un capriccio poco rispettoso.
Come nessuno ha penetrato il suo destino segnato dalla sua provenienza romena. Non la voleva negare. Ma penetrando questo mistero desiderava capirlo e distruggerlo nello stesso tempo. Era fiero e compassionevole di fronte alla sua nazione e nello steso momento soffriva un complesso d’inferiorità immenso e una vergogna per essere Romeno. Senza misericordia guardava negli occhi di questo stigma nazionale come se volesse con questo suo sguardo distruggere e nello stesso momento salvare le sue origini. Per capirsi meditava sulle altre nazioni: Francesi, Spagnoli, Russi, Italiani, Tedeschi, Ebrei – le sue sono analisi acutissime. Le invidiava e le detestava. Con Romeni rimaneva in contatto diretto, epistolare e intellettuale. A modo suo aiutava i suoi connazionali e la sua famiglia vissuta nel contesto di una farsa tragica del totalitarismo e tuttavia fuggiva questa dipendenza in un impeto sfrenato e irrazionale. Si vorrebbe che tutti i Romeni meditassero la propria identità nazionale con tale lucidità – ma chi potrebbe resistere all’impatto? Sarebbe opportuno che ogni persona con tale passione cercasse di capire le proprie origini nazionali – ma chi ne ha veramente la voglia e il coraggio?
La sua tettoia non era uno studio. Con la sua povertà materiale unita all’idea della rinuncia Cioran non avrebbe potuto diventare né un collezionista né un bibliofilo. Ma leggeva molto – spesso passando il tempo nelle biblioteche. Era il tipico intellettuale del XX secolo che percorreva i filosofi da Platone a Heidegger, gli storici da Tacito ai dotati monografisti moderni di ogni genere, i poeti da Omero a Valéry, i mistici da Eckhart a Giovanni della Croce e i grandi romanzieri del Otto- e del Novecento. Amava leggere le biografie e gli epistolari di ogni genere, sfogliava i giornali e le riviste, e passava le notti ascoltando la musica. Da buon occidentale della sua epoca si era interessato pure al buddismo che è riuscito a conoscere assai bene. Aveva i suoi interlocutori perenni come Pascal o Montaigne. Inquieto, dialogava in continuo con il passato e il presente: si lasciava prendere dalla lettura, ma poi doveva sempre fare il suo punto su tutto. La spada con cui combatteva feriva lui stesso e il suo volersi distinguere lo assomigliava al suo avversario. In fin dei conti, nel suo atteggiamento intellettuale, voleva rimanere da solo, non riconciliato con niente e con nessuno. Per questo rimane uno dei commentatori più originali della cultura occidentale del Novecento.
Uno dei tratti caratteristici di Cioran era il suo senso di profondo sradicamento, una vita esiliata dalla vita stessa. Tale percezione lo riempiva di dolore. Essendo non era. Il suo scrivere – da un certo momento – in francese e non più in romeno, il suo vivere prima in Germania e poi in Francia senza mai ritornare in patria, sono soltanto segni esterni del suo destino di apolide. Cioran aveva la sensazione di non quadrare nella realtà. Si sentiva straniero non solo tra le diverse nazioni e culture, ma anche di fronte alla realtà stessa – era un esule ontologico e perenne. Perciò si sentiva vicino agli Ebrei che gli sembravano (come ha scritto) “un popolo di solitari” proprio perché esuli. Ma rispetto a loro Cioran non si sentiva religioso, cioè straniero in questo mondo perché prescelto o segnato da un dio. Cioran si sentiva bandito anche da dio e non sentiva, pur desiderando, un aggancio alla realtà divina. Per calmare questo senso di esilio leggeva, scriveva, si consolava con le teorie della rinuncia buddista, ma poi il tormento tornava. Dal senso di questa estraneità ontologica proveniva il suo modo di pensare che poi trovava le sue espressioni nei suoi libri – già i soli titoli gli danno testimonianza: La caduta nel tempo (da dove?), Sconveniente di essere nati legato con il suo desiderio di non esistere e voler tornare nel prima-di-sé. In tale tipo di riflessione trovava forse una consolazione, una momentanea pace, un non-esistere. Ma poi non resisteva e scriveva di nuovo esprimendosi attraverso i Sillogismi di amarezza. Questo senso di esilio lo faceva soffrire. Ma forse a rovescio: una certa amarezza lo faceva sentire assolutamente fuori di tutto.
Cioran prima o poi se la prendeva con tutti, ma il suo rapporto col cristianesimo fu particolare. Non solo crebbe in una cultura cristiana, ma va ricordato che suo padre era un prete ortodosso. Sarebbe troppo facile spiegare quanto detto sopra con un modello freudiano (il figlio che uccide padre) o con un influsso di Nietzsche – anche se le tracce di questi due padri della modernità hanno segnato Cioran. Egli appartiene al gruppo di “sconvertiti” cioè alla gente – ce n’è stata tanta lungo la storia – che pur crescendo in clima cristiano ed essendo cristiana in un certo momento abbandona questa fede fornendo in seguito un pensiero a proposito, una filosofia, una spiegazione. Sicuramente su tale atteggiamento potevano influire insieme aspetti di cultura secolarizzata e scristianizzata in cui lui si muoveva. Cioran sarebbe in tal caso solamente uno dei tanti che hanno seguito il movimento di massa che caratterizza la cultura contemporanea e il suo pensiero sarebbe solo un eco di qualcosa di più vasto che attraversa il mondo moderno. Ma questo pensatore era anche in grado, con la sua intelligenza, di muoversi proprio contro questo movimento. Non mi sembra poi che abbia subito qualche esperienza negativa da parte del cristianesimo al punto da girare le spalle. E se tutto invece era solo causato dal suo appassionato senso di negazione del tutto o dal suo esilio, avrebbe potuto anche negare la negazione o sentirsi proprio come cristiano esiliato da tutto (come tanti o come gli Ebrei che ammirava proprio da questo punto di vista). Teologicamente si potrebbe affermare che forse non gli è stata data la grazia della fede – questo a sua volta richiederebbe un ripensamento totale e teologico del fatto della grazia, della fede e della salvezza offerte (come spesso si sente dire) a tutti. Ma per questo bisognerebbe forse ripensare alcuni luoghi comuni di una certa mentalità per cui appartenere al cristianesimo sembra troppo facile, ovvio o persino obbligatorio.
© Maciej Bielawski (2003)
Era un solitario ma in una grande e grandiosa Parigi. È uno dei suoi paradossi che è anche tipico di tanti contemporanei che immersi nella polis di questo mondo sognano la solitudine e così, pur essendo in una città, passano i propri giorni in un isolamento tremendo. La Parigi di Cioran era ancora il centro, se non del mondo, almeno di alcune correnti della cultura occidentale. Cioran scendendo le scale e uscendo sulle strade del suo quartiere poteva incontrare in uno dei bar J.P. Sartre. Poi dopo due passi poteva perdersi in una delle librerie o degli antiquari, per entrare quindi alla Sorbona e ascoltare qualche profeta del tempo (erano principalmente strutturalisti, analisti e linguisti di tutti i colori, che lui detestava). Uscendo dalla Sorbona poteva entrare nel suo amato parco di Luxemburg dove si salutava per esempio con S. Beckett, per finire la giornata chiacchierando con il suo connazionale E. Ionescu. Durante la notte poteva vagare a lungo per le strade svuotate di questa città discutendo tra sé e con sé quanto aveva visto, udito o letto durante il giorno. Così ottenebrava la ricchezza dell’impatto parigino ma poteva ritrovare il tono che era il suo; con questo i suoi occhi si coprivano di nuovo con il velo di assenza, di solitudine e di negazione.
Perché Cioran era l’incarnazione della negazione. Negava tutto – persino la negazione stessa. Era presente in lui un impeto struggente – distruggeva tutto ciò che esisteva, anche quanto lui stesso creava, distruggeva se stesso. Questa era la sua passione, la sua malattia, la sua forza e la sua condanna. In tale atteggiamento a volte appariva sincero, come un ricercatore della verità assoluta, come uno che voleva cogliere l’essenza oltre tutte le maschere e le illusioni. In ciò è da ammirare. Ma non di rado questo suo modo di agire era un capriccio, una perversione, uno spietato umorismo nero segnato di un pessimo tenore e di un sarcasmo malato. In ciò è irritante. Ogni tanto allora, sotto i suoi scritti, Cioran appare come un tipo saggio, pacato e sofferente per la causa della verità, talvolta sembra un iconoclasta scatenato, isterico, pieno di rabbia. Il suo volto era segnato da una sofferenza da cui non poteva e non voleva fuggire, a volte però era sfiorato da un sorriso sincero. Sul suo viso mi par di scorgere un ghigno stigmatizzato dalla dolorosa ricerca della verità e contemporaneamente da un capriccio poco rispettoso.
Come nessuno ha penetrato il suo destino segnato dalla sua provenienza romena. Non la voleva negare. Ma penetrando questo mistero desiderava capirlo e distruggerlo nello stesso tempo. Era fiero e compassionevole di fronte alla sua nazione e nello steso momento soffriva un complesso d’inferiorità immenso e una vergogna per essere Romeno. Senza misericordia guardava negli occhi di questo stigma nazionale come se volesse con questo suo sguardo distruggere e nello stesso momento salvare le sue origini. Per capirsi meditava sulle altre nazioni: Francesi, Spagnoli, Russi, Italiani, Tedeschi, Ebrei – le sue sono analisi acutissime. Le invidiava e le detestava. Con Romeni rimaneva in contatto diretto, epistolare e intellettuale. A modo suo aiutava i suoi connazionali e la sua famiglia vissuta nel contesto di una farsa tragica del totalitarismo e tuttavia fuggiva questa dipendenza in un impeto sfrenato e irrazionale. Si vorrebbe che tutti i Romeni meditassero la propria identità nazionale con tale lucidità – ma chi potrebbe resistere all’impatto? Sarebbe opportuno che ogni persona con tale passione cercasse di capire le proprie origini nazionali – ma chi ne ha veramente la voglia e il coraggio?
La sua tettoia non era uno studio. Con la sua povertà materiale unita all’idea della rinuncia Cioran non avrebbe potuto diventare né un collezionista né un bibliofilo. Ma leggeva molto – spesso passando il tempo nelle biblioteche. Era il tipico intellettuale del XX secolo che percorreva i filosofi da Platone a Heidegger, gli storici da Tacito ai dotati monografisti moderni di ogni genere, i poeti da Omero a Valéry, i mistici da Eckhart a Giovanni della Croce e i grandi romanzieri del Otto- e del Novecento. Amava leggere le biografie e gli epistolari di ogni genere, sfogliava i giornali e le riviste, e passava le notti ascoltando la musica. Da buon occidentale della sua epoca si era interessato pure al buddismo che è riuscito a conoscere assai bene. Aveva i suoi interlocutori perenni come Pascal o Montaigne. Inquieto, dialogava in continuo con il passato e il presente: si lasciava prendere dalla lettura, ma poi doveva sempre fare il suo punto su tutto. La spada con cui combatteva feriva lui stesso e il suo volersi distinguere lo assomigliava al suo avversario. In fin dei conti, nel suo atteggiamento intellettuale, voleva rimanere da solo, non riconciliato con niente e con nessuno. Per questo rimane uno dei commentatori più originali della cultura occidentale del Novecento.
Uno dei tratti caratteristici di Cioran era il suo senso di profondo sradicamento, una vita esiliata dalla vita stessa. Tale percezione lo riempiva di dolore. Essendo non era. Il suo scrivere – da un certo momento – in francese e non più in romeno, il suo vivere prima in Germania e poi in Francia senza mai ritornare in patria, sono soltanto segni esterni del suo destino di apolide. Cioran aveva la sensazione di non quadrare nella realtà. Si sentiva straniero non solo tra le diverse nazioni e culture, ma anche di fronte alla realtà stessa – era un esule ontologico e perenne. Perciò si sentiva vicino agli Ebrei che gli sembravano (come ha scritto) “un popolo di solitari” proprio perché esuli. Ma rispetto a loro Cioran non si sentiva religioso, cioè straniero in questo mondo perché prescelto o segnato da un dio. Cioran si sentiva bandito anche da dio e non sentiva, pur desiderando, un aggancio alla realtà divina. Per calmare questo senso di esilio leggeva, scriveva, si consolava con le teorie della rinuncia buddista, ma poi il tormento tornava. Dal senso di questa estraneità ontologica proveniva il suo modo di pensare che poi trovava le sue espressioni nei suoi libri – già i soli titoli gli danno testimonianza: La caduta nel tempo (da dove?), Sconveniente di essere nati legato con il suo desiderio di non esistere e voler tornare nel prima-di-sé. In tale tipo di riflessione trovava forse una consolazione, una momentanea pace, un non-esistere. Ma poi non resisteva e scriveva di nuovo esprimendosi attraverso i Sillogismi di amarezza. Questo senso di esilio lo faceva soffrire. Ma forse a rovescio: una certa amarezza lo faceva sentire assolutamente fuori di tutto.
Cioran prima o poi se la prendeva con tutti, ma il suo rapporto col cristianesimo fu particolare. Non solo crebbe in una cultura cristiana, ma va ricordato che suo padre era un prete ortodosso. Sarebbe troppo facile spiegare quanto detto sopra con un modello freudiano (il figlio che uccide padre) o con un influsso di Nietzsche – anche se le tracce di questi due padri della modernità hanno segnato Cioran. Egli appartiene al gruppo di “sconvertiti” cioè alla gente – ce n’è stata tanta lungo la storia – che pur crescendo in clima cristiano ed essendo cristiana in un certo momento abbandona questa fede fornendo in seguito un pensiero a proposito, una filosofia, una spiegazione. Sicuramente su tale atteggiamento potevano influire insieme aspetti di cultura secolarizzata e scristianizzata in cui lui si muoveva. Cioran sarebbe in tal caso solamente uno dei tanti che hanno seguito il movimento di massa che caratterizza la cultura contemporanea e il suo pensiero sarebbe solo un eco di qualcosa di più vasto che attraversa il mondo moderno. Ma questo pensatore era anche in grado, con la sua intelligenza, di muoversi proprio contro questo movimento. Non mi sembra poi che abbia subito qualche esperienza negativa da parte del cristianesimo al punto da girare le spalle. E se tutto invece era solo causato dal suo appassionato senso di negazione del tutto o dal suo esilio, avrebbe potuto anche negare la negazione o sentirsi proprio come cristiano esiliato da tutto (come tanti o come gli Ebrei che ammirava proprio da questo punto di vista). Teologicamente si potrebbe affermare che forse non gli è stata data la grazia della fede – questo a sua volta richiederebbe un ripensamento totale e teologico del fatto della grazia, della fede e della salvezza offerte (come spesso si sente dire) a tutti. Ma per questo bisognerebbe forse ripensare alcuni luoghi comuni di una certa mentalità per cui appartenere al cristianesimo sembra troppo facile, ovvio o persino obbligatorio.
© Maciej Bielawski (2003)