Chiesa e monachesimo
Inizierò questa riflessione (I) con tre punti di introduzione al tema “Chiesa e monachesimo” che intendo presentare come problema, mostrando quali sono le difficoltà di pensare e di vivere questa realtà. Poi (II) cercherò di fare una certa fenomenologia della questione riportando alcuni esempi della tradizione; ne ho presentati sette e riguardano la relazione tra “Chiesa-monachesimo” nella storia: come è stata pensata, vista e vissuta. Sono ovviamente esempi “simbolici”, ma penso che mettono a fuoco i nodi cruciali del tema. In seguito (III) cambierò totalmente l’approccio e cercherò di affrontare il tema “Chiesa e monachesimo” dal punto di vista della teologia della memoria di Dio in cui la Chiesa appare come lo spazio interpersonale segnato dalla memoria di Dio e il monachesimo si presenta soprattutto come lo stile di vita e la cultura della memoria.
Inizierò questa riflessione (I) con tre punti di introduzione al tema “Chiesa e monachesimo” che intendo presentare come problema, mostrando quali sono le difficoltà di pensare e di vivere questa realtà. Poi (II) cercherò di fare una certa fenomenologia della questione riportando alcuni esempi della tradizione; ne ho presentati sette e riguardano la relazione tra “Chiesa-monachesimo” nella storia: come è stata pensata, vista e vissuta. Sono ovviamente esempi “simbolici”, ma penso che mettono a fuoco i nodi cruciali del tema. In seguito (III) cambierò totalmente l’approccio e cercherò di affrontare il tema “Chiesa e monachesimo” dal punto di vista della teologia della memoria di Dio in cui la Chiesa appare come lo spazio interpersonale segnato dalla memoria di Dio e il monachesimo si presenta soprattutto come lo stile di vita e la cultura della memoria.
I. 1. La riflessione sul tema “Chiesa e monachesimo” crea disagio e perplessità. Perché? Perché è un tema molto egocentrico: un monaco riflette sul monachesimo, un membro della Chiesa fa ecclesiologia. A me sembra che il XX secolo, con tutta la sua gloria, abbia sviluppato in modo quasi eccessivo l’attenzione sull’ecclesiologia e i monaci su questo che è monastico. Ogni epoca della Chiesa ha avuto le sue caratteristiche: abbiamo avuto epoche trinitarie, epoche cristologiche, epoche pneumatologiche, epoche eucaristocentriche, epoche antropocentriche. Il nostro tempo ha insistito moltissimo nella riflessione sulla Chiesa; questo comporta aspetti positivi e negativi. Mi sono posto la domanda: perché noi cristiani del XX secolo abbiamo posto tanta attenzione sulla Chiesa? Come se non avessimo abbastanza forza di sopportare una contemplazione diretta di Dio per cui ci siamo ripiegati nella riflessione sulla chiesa di Dio. Così nella riflessione teologica e nella sua produzione letteraria è stato detto e scritto moltissimo sulla Chiesa e anche sul monachesimo. Il numero di studi, di fonti, di libri, di conferenze è immenso – nonostante la crisi della Chiesa e della vita monastica. Ma bisogna riconoscersi figli del proprio tempo, bisogna proprio affrontare il problema. Forse una delle risposte, al “perché” di questa situazione, potrebbe essere che noi uomini del nostro tempo siamo chiamati a essere i mistici della Chiesa, di quella Chiesa che pure ha aspetti di scandalo, la Chiesa che è colpevole, la Chiesa che è fallita in tanti modi nella cultura occidentale. Allora, per cogliere la parte divina, bisogna scorgere l’altro lato di ciò che è visibile. Come alcuni cristiani di epoche passate erano portati ad una mistica della Trinità e di Cristo e altri coglievano la mistica attraverso il Mistero Eucaristico, magari noi potremmo essere condotti o sfidati ad essere mistici della Chiesa, non soltanto nella Chiesa ma anche della Chiesa.
2. Parlare di Chiesa e di monachesimo mi si presenta difficile perché ambedue le parole – Chiesa e monachesimo – sono appesantite da tantissimi cliché. Prendiamo la parola “chiesa”. Una volta, una signora in pullman discutendo con me ha cominciato a dire: “Ah, la Chiesa questo, eh, la Chiesa quanto...” Le ho detto: “Guardi signora che anche lei fa parte della Chiesa!” e lei mi ha risposto: “No, no. La Chiesa sono preti, vescovi e cardinali. Noi siamo cristiani!” Ecco uno dei cliché quando si pensa alla Chiesa. Un altro cliché è legato al monachesimo. Frequentemente uno trova che nel pensiero corrente un monaco o una monaca siano persone che vivono in un monastero. È un cliché perché è molto riduttivo. Bisogna ricordare che il termine monaco non deriva da monastero, ma viceversa. In altre parole: non tutti coloro che vivono nei monasteri sono monaci e non tutti i monaci vivono in monasteri. Però esiste questa immagine che identifica monaco e monastero. Altri cliché: il monaco è un soggetto che pensa alla morte o che di fatto manca di vita; il monaco è uno che porta un certo abito; il monaco è uno che è migliore o più perfetto di quelli che vivono nel cosiddetto mondo. Sono cliché del modo di pensare. Allora a che cosa pensiamo affrontando il tema “Chiesa e monachesimo”?
Ambedue i termini, monaco e Chiesa, sono difficilmente definibili o piuttosto non definibili. Tuttavia si trovano le definizioni sia per “Chiesa” che per “monachesimo”. Per esempio nell’Occidente abbiamo avuto una definizione di Chiesa come “società perfetta” promossa da Bellarmino, ma va detto che questa definizione lungo i secoli ha fatto abbastanza male alla Chiesa e al mondo. Il Vaticano II non ha proposto nessuna definizione di Chiesa. Ha offerto immagini, categorie, modelli quali: Corpo Mistico, del sacramento o pre-sacramento o, in senso più biblico, popolo di Dio, vigna, ecc. L’epoca post-conciliare ha poi insistito sul tema della koinonia, cioè ha cercato di comprendere il mistero della Chiesa sotto il segno della comunione/comunità. Ma una vera e propria definizione non è stata data e non esiste. E’ come se il Mistero non volesse essere appiattito da un mero sillogismo, da concetti.
Lo stesso vale per il monachesimo. Ci sono stati tantissimi tentativi di definire chi è un monaco. Per esempio, quando si pensava alla Chiesa come ad una società composta di diversi stati, si parlava di gerarchia, di laici e in mezzo a loro, in qualche modo, non si sapeva dove se sotto o sopra, c’erano i monaci e le monache. Il monachesimo era visto in una posizione intermedia, tra laici e gerarchia. Un’altra definizione di monaco espressa da Thomas Merton nel suo libretto “La vita silenziosa” dice che “monaco è un uomo che ha lasciato tutto per impegnarsi totalmente nella ricerca di Dio”; troviamo qui due dimensioni: la rinuncia e l’impegno nella ricerca di Dio. Secondo la definizione benedettina monaco è uno che cerca Dio. Merton dice che il monaco sarebbe uno che rinuncia a tutto per dedicarsi in modo assoluto, esclusivo alla ricerca di Dio. Un altro, Raimon Panikkar, tenta una definizione introducendo il concetto dell’archetipo del monaco che è presente in ogni uomo e attraverso cui ogni persona cerca la sua pienezza, la sua unificazione e l’unione con Dio. C’è poi Bede Griffiths, che dice “monaco è un segno oltre tutti i segni”. Alcuni dizionari o enciclopedie, analizzano la parola monachòs definendolo “solitario, da solo”; altri dicono che monachòs vuol dire anche unito in sé, allora sarebbe non soltanto una rinuncia ma anche “un insieme” che viene vissuto in pienezza, un tutto, un’unificazione. Ma esistono altre definizioni di monaco, per esempio nei “Detti dei Padri del deserto” si legge che, a uno che rivolge ad un monaco la domanda: chi è il monaco? Il monaco risponde togliendosi lo scapolare, gettandolo per terra, calpestandolo con i piedi e dicendo: “questo è il monaco”. Ad un altro che pone la stessa domanda, un monaco risponde girandosi, alzando le mani che in quel momento diventano come fiamme e senza pronunciare una parola dice: “questo è il monaco”.
3. Alla fine vorrei precisare che parlo di “monaco”, ma pensando a questa comunità a cui mi rivolgo si pone il problema delle “monache” cioè del versante femminile del monachesimo e del suo rapporto con la Chiesa che magari è diverso dal rapporto tra monachesimo maschile e Chiesa. Non vorrei soffermarmi troppo su questo argomento un po’ per delicatezza e un po’ per mancata esperienza. Credo che tocchi a voi svilupparlo. Buona parte della letteratura monastica femminile è stata scritta dagli uomini; però, io quando dico monaco, monachesimo, penso più facilmente ai monaci uomini che alle monache, ma questo è un mio cliché e il mio limite mentale, lo dico apertamente. Questa è una lacuna, non soltanto nella mia proposta, ma nell’intera tradizione della Chiesa.
II. Detto questo, abbiamo visto che il problema è complesso. Cosa vuol dire Chiesa e cosa vuol dire monachesimo? Di che cosa parliamo riflettendo sulla “Chiesa e monachesimo” e come parlarne? Tra queste due realtà c’è una differenza? C’è un’affinità? C’è un’intrapenetrazione? C’è un contrasto? C’è di tutto, perché c’è un certo dinamismo tra queste due realtà e forse una si rispecchia nell’altro. Ognuno di noi pensa a qualcosa quando pensa al monaco, pensa a qualcosa quando pensa alla Chiesa e probabilmente le nostre intuizioni di base sono da una parte giuste e d’altra infettate da cliché assai falsi. Prendiamo allora alcuni esempi della storia e vediamo come la cosa è stata vissuta e vista.
1. Il giovane e appena consacrato vescovo d’Alessandria, Atanasio, fece visita alla comunità monastica di Pacomio a Tebaide. Il vescovo della diocesi, Serrapione, aveva offerto a Pacomio la sua protezione, a causa di una certa contestazione dell’ambiente nei confronti del progetto e dello stile di vita di Pacomio. Il vescovo Serrapione diceva allora ad Atanasio di Pacomio: “E’ bravo, magari potrei farlo prete, mi sarebbe utile ordinarlo sacerdote”. Mentre sussurrava queste parole all’orecchio di Atanasio, era di fronte alla comunità e a Pacomio che intuì la cosa e fuggì, nascondendosi tra i confratelli. Atanasio capì che Pacomio non voleva essere ordinato sacerdote nonostante il suo vescovo locale insistesse moltissimo sulla questione e lo lasciò stare. Atanasio però prima della sua partenza di là disse: “Poiché ti sei nascosto a noi, fuggendo quella che è la causa di gelosie, discordie, (pensava del clero - MB) il Signore ti accorda quanto desideri; tuttavia se Dio lo volesse noi ritorneremo da te, perciò fa’ che possiamo meritare di rivedere il tuo volto”. Questo disse il Patriarca di Alessandria, il Vescovo dell’Egitto a un monaco che aveva appena fondato una comunità. Si intravede un certo dinamismo, un senso di riconoscenza ma anche una tensione. In questo esempio, si evidenzia il rapporto tra la gerarchia e questi “laici senza importanza” che non si sentono migliori e che sono alle origini della vita comunitaria monastica.
2. Lo stesso Atanasio scrisse poi la “Vita di Sant’Antonio”. Questa è la prima biografia di un monaco e uno dei testi più classici, archetipo di tutti i testi delle vite dei monaci e delle monache ed è scritto da un Vescovo, non da un monaco. Quest’opera è una cripto-regola monastica mascherata come biografia. Il fatto che sia stata scritta da un Vescovo fa pensare moltissimo. E’ come se questi gli desse un riconoscimento, come se volesse promuoverlo, lasciarne una testimonianza. Inoltre, Atanasio e Antonio erano amici; quando Antonio stava per morire disse: “ricevetti questo mantello dal vescovo Atanasio che ormai è diventato vecchio, me ne sono procurato uno nuovo ma quando morirò mi seppellirete nudo e questo mio mantello lo rimanderete al Vescovo Atanasio”.
3. Molto presto in Egitto apparve un detto che si è diffuso anche in Occidente nella versione di Giovanni Cassiano in cui si dice: “il monaco deve fuggire i vescovi e le donne”. Il modo in cui Cassiano lo riporta è ironico e critico, accompagnato da un episodio simpatico. Un monaco stava percorrendo una strada, quando vide davanti a sé una donna e così, preso da spavento, cominciò a correre e in quel momento fu colpito da un ictus. Rimase paralizzato e fino alla fine dei suoi anni fu curato dalle donne. Cassiano discretamente ride su tutto questo e mostra come tutto ciò che riguarda il rapporto tra monaco-donna e anche quello monaco-vescovo (Chiesa), sia stato vissuto spesso in modo scorretto, nevrotico, malato. Ne abbiamo tantissimi esempi. Così un monaco per non essere ordinato sacerdote si tagliò le orecchie perché esisteva la regola che uno per essere ordinato non doveva essere fisicamente deforme. In questo caso il rapporto tra monachesimo e gerarchia era vissuto e visto in modo drammatico, anche se apparentemente ridicolo. Questo ovviamente riguarda il monachesimo maschile, ma nel versante femminile esiste lo stesso problema. Esiste pure un galoppante e sgradevole anticlericalismo anzi un anti-ecclesialismo monastico, un esclusivismo piuttosto malato. La convivenza tra monaci e clero secolare spesso un tempo era dolorosa. Per esempio San Benedetto fece due esperienze. Una fu bella e positiva: quando dopo un periodo della vita solitaria giunse da lui un sacerdote che gli portò del cibo e gli chiese di pregare insieme, perché era la Pasqua, Benedetto gli rispose: “Se tu vieni oggi da me è veramente la Pasqua”. Una esperienza invece fu negativa. Successe che quando a Subiaco intorno a San Benedetto si formò una comunità, un sacerdote della zona, preso da gelosia, rese al monaco la vita impossibile e Benedetto non volendo più conflitti con un esponente del clero locale fece i bagagli e si spostò a Montecassino.
4. Inizialmente il monachesimo fuggiva dalla Chiesa divenuta troppo mondana, e si creava centri lontani da essa, ma poi, nel tempo, la invase. Questa si potrebbe chiamare monachinizzazione della Chiesa. Da questo fatto proviene una tradizione che in Oriente è divenuta una regola (in Occidente varia con le epoche), per cui oggi solo un monaco può diventare vescovo. Per cui, se dapprima i monaci fuggivano i vescovi, più tardi soltanto i monaci potevano diventare vescovi. Un bel cambiamento. In Occidente poi avvenne la riforma gregoriana in cui soprattutto Pier Damiani ebbe il forte desiderio di riformare il clero monachinizzandolo. In questo processo il monaco veniva presentato come un chierichetto perfetto di fronte a quello imperfetto proveniente dal clero diocesano. Questa idea è durata a lungo nella Chiesa latina. Ma tutto questo ha dato anche un duro colpo al monachesimo stesso perché in effetti il clero non si è monachenizzato, ma sicuramente il monachesimo si è clericalizzato. È uno degli effetti che si riscontra nei monasteri ancora oggi. Anche qui ci si potrebbe chiedere quale conseguenza abbiano portato, sia la monachinizzazione del clero, sia la clericalizzazione del monachesimo nel monachesimo femminile. Cercate voi la risposta.
5. Esiste qualcosa che si potrebbe chiamare “orgoglio monastico”. Gesù ha detto “Voi siete il sale della terra”. All’inizio questa Parola era riferita ai cristiani nel mondo. Pian piano, quando il mondo si fece cristiano e la Chiesa decadente, i monaci divennero il sale, e la terra non salata, il “resto” della Chiesa. Quando poi anche il monachesimo divenne decadente l’eremita diventò il sale, e la terra non salata furono i monasteri malandati con tutta la Chiesa. Da qui, poi, proviene il modo di pensare che non solo “extra ecclesiam nulla salus”, ma anche “extra monasteri nulla salus”, cioè che fuori dal monastero nessuno si salva. Quest’idea divenne molto forte in tutto il cristianesimo e per secoli. Per queste ragioni la gente laica desiderava essere almeno seppellita in abiti monastici, credendo che così si sarebbe arrivati più facilmente e in modo sicuro in Paradiso. Con questo “orgoglio monastico”, il monachesimo portava all’interno della Chiesa un cattivo esclusivismo: la convinzione di essere il migliore, la necessità quindi di farsi monaci perché gli altri non sono perfetti. Oggi guardiamo con un certo sospetto ai nuovi movimenti ecclesiali che sono arroganti allo stesso modo in cui noi lo eravamo in passato. Siamo intolleranti dicendo: ma che fanno?, pensano che noi tutti dobbiamo diventare come loro? Però fino a poco tempo fa anche noi eravamo così.
6. Oggi però il monachesimo è umiliato. Il monachesimo non è più il protagonista nella vita della Chiesa. Ogni tanto ancora i monaci si sentono a disagio per questo cambiamento. Alcuni cercano di giustificare la loro presenza nella Chiesa rendendosi utili, inventando milioni di attività, altri abbandonano lo stile di vita monastico e altri ancora si chiudono nei loro piccoli mondi claustrali illudendosi che prima o poi il mondo o la Chiesa, o almeno l’eternità, darà loro retta – ma tutti questi atteggiamenti testimoniano e generano soltanto una sterilità spirituale. Si è cambiato il paradigma di santità e con questo si è ridimensionata anche la presenza monastica nella chiesa e nel mondo. Parlando con molti monaci e monache si nota come tutti hanno una certa difficoltà a ritrovarsi in questo tempo di transizione. Paradossalmente, come in passato ci si chiedeva se era possibile salvarsi fuori dal monastero, oggi i monaci spesso si pongono la domanda: ma è ancora possibile vivere il vangelo dentro i monasteri? E’ una strana evoluzione di cui siamo oggi testimoni. Bisogna capire che se dopo un certo periodo di tempo alcuni lasciano il monastero, spesso non lo fanno per cattiveria, ma perché semplicemente non vedono la possibilità di vivere il vangelo nelle strutture monastiche attuali. I monaci oggi si domandano: ma tutto questo è ancora legato al vangelo? Si pongono la domanda: posso allora salvarmi vivendo nel monastero? E’ una grande parabola quella che ha vissuto il monachesimo: dall’essere convinto che soltanto così uno si salva, alla domanda se vivendo così uno veramente può salvarsi. Questo è veramente tragico ma è così e bisogna vedere la realtà così come è. Chi entra oggi in monastero e non si pone questa domanda, è sincero? Poco tempo fa, un anziano monaco, ormai settantacinquenne, mi chiese: “Che devo fare? Ho fatto il monaco tutta la vita, non so fare niente altro, ma mi sento che ho mancato qualcosa del vangelo. Vorrei lasciare e fare il pellegrino o qualcos’altro per meglio amare il Signore e non so come, non so che cosa dovrei fare? Ma, mi sembra che qui tutto non funzioni”. Non era semplicemente una domanda di un monaco in crisi. Dietro queste sue domande giaceva una vera ricerca di Dio e una vera preoccupazione per la salvezza e per la testimonianza al vangelo.
7. La lezione d’umiltà continua. Sicuramente il monachesimo c’è e ci sarà, ma una delle cose che mi chiedo è: qual è la lezione della storia? Qual è il punto di tutto questo? Cercando una risposta a tale domanda, sono arrivato a questa conclusione, che la Chiesa ha conosciuto i tempi e gli spazi in cui il monachesimo non c’era. Per esempio i primi tre secoli della Chiesa non hanno conosciuto il monachesimo come tale. Allora è possibile immaginare la Chiesa senza il monachesimo? O pensiamo alle terre delle persecuzioni... Perché la vita monastica richiede un certo accordo con lo Stato, un certo possesso di beni, un certo status liturgico, una certa “calma” in cui i monaci entrano e muovono questo mulino. Quando queste cose mancano, come mancavano recentemente nei paesi dove il cristianesimo era perseguitato è nato pure un detto: “Noi oggi non abbiamo più bisogno dei monaci, perché abbiamo dei martiri”. In altre parole si potrebbe dire che il monachesimo nella Chiesa non è necessario – la storia conferma questa opinione. Detto tutto questo penso che il monachesimo sia un carisma dentro la Chiesa e per la Chiesa che può essere suscitato dallo Spirito ogni tanto, in qualche luogo, per un servizio all’interno del Corpo Mistico. Direi che non sia una soluzione migliore di altre, abbiamo imparato anche questo. Non è una proposta perfetta. Questo la storia ce lo dice chiaramente. Però il monachesimo è una forma che ha funzionato e funziona, è una soluzione positiva. Ogni tanto penso che il monachesimo sia un compromesso storico. Se la Chiesa fosse perfetta o se il mondo potesse essere senza peccato, i monasteri e la vita monastica non sarebbero necessari, ma poiché la realtà è contaminata, bisogna creare luoghi, spazi e ritmi di vita che rendano possibili la ricerca di Dio e la santità anche sotto il segno della vita monastica. Ma questo è un compromesso storico e non una esigenza assoluta, e se guardiamo bene alla storia dell’umanità, anche oltre al cristianesimo, il monachesimo è una delle invenzioni (divino-umane) meglio riuscite lungo i secoli. Il monachesimo, nonostante la sua fragilità nella storia passata e presente, è una delle avventure dell’umanità con Dio assai riuscite, pur nel suo piccolo, nel suo limite. Il divino si lascia vivere, irradiare, la grazia può andare ovunque, però, forse Dio può parlare più facilmente attraverso una realtà monastica – almeno per alcuni. Si potrebbe dire: “Anche nei monasteri si può vivere il vangeli”. Questo non è poco.
III. Abbiamo visto che c’è una certa tensione nel cogliere insieme le due realtà “Chiesa e monachesimo”. Dando sopra questi sette esempi volevo mostrare un mosaico abbastanza complesso di questo problema. Spesso pensare sia la Chiesa sia il monachesimo in una prospettiva, troppo istituzionale o troppo esteriore, porta ad una strada senza uscita. Questo è accaduto tante volte. Allora bisogna fuggire da queste strade. I Padri monastici parlavano del discernimento degli spiriti, cioè quei pensieri che girano nel cuore, risiedono nella testa e giacciono nel corpo. Bisogna rendersi conto di quali siano i pensieri cattivi per cacciarli e quali siano invece quelli buoni per seguirli. Io penso che sulla questione Chiesa-monachesimo abbiamo tanti pensieri, bisogna valutarli tutti, ma poi seguire quelli giusti. Perciò ora cambio totalmente registro. Mi sono posto la domanda: se dovessi ora scrivere un’ecclesiologia, quale categoria mi piacerebbe usare? Lo stesso ho fatto per il monachesimo. E mi sono detto che, sia per la Chiesa che per il monachesimo, una delle categorie fondamentali secondo me è la memoria di Dio. La Chiesa è una comunità della memoria di Dio Padre, nella potenza dello Spirito Santo insieme con Gesù Cristo. Lo stesso vale per il monachesimo. Anzi: il monachesimo è una cultura della memoria di Dio. Parlerò allora del monachesimo come di una cultura della memoria di Dio e attraverso questo si potrà capire anche che cos’è la Chiesa. D’ora in poi rifletterò sulla memoria e sul monachesimo e cercherò di vedere anche la Chiesa in questa prospettiva. Quanto mi propongo di fare è una ricerca del pensiero che non è finito né definito, è solamente un abbozzo. Anche in questo caso propongo alcuni punti.
1. Bisogna iniziare con alcune domande. Perché ricordiamo? Che cosa si ricorda? Ricordiamo tutto ciò che registriamo o no? Che cosa è la memoria?
2. Si possono fare alcune osservazioni di tipo fenomenologico. Senza memoria è impossibile pensare. Se non si possiede memoria delle parole italiane, non è possibile capire quanto è scritto qui. Esiste una base fisica della memoria che si chiama memoria del corpo ed è molto più forte di quella mentale e che è abitudine, come per esempio il modo di dormire, il gusto di mangiare, le reazioni che manifestiamo quando siamo stanchi o arrabbiati. Tutto questo è inscritto nella memoria del nostro corpo. Senza questa memoria non si può mangiare, camminare, dormire; se uno si dimentica di dormire muore, la perdita di tale memoria genera uno stato di malattia. Senza memoria allora non è possibile vivere. Ma d’altra parte, una memoria o un ricordo può ucciderci. Il ricordo di qualche cosa, un’ossessione del passato, può nuocere fino alla morte. Ecco l’ambiguità della memoria. Senza una memoria, una persona o una comunità non ha identità. La memoria aiuta, la memoria disturba, la memoria molto spesso condiziona le nostre scelte di oggi, la memoria è sempre viva, si arricchisce. Io da oggi sarò diverso nella mia memoria dopo aver visitato questa casa, mi sarò arricchito di qualcosa, ma lo vedo nella luce della mia memoria accumulata, non sono libero, sono condizionato. La memoria si perde, uno si sente smarrito e si domanda: da dove vengo? dove devo andare? Sia in senso fisico che esistenziale, se non ci si ricorda da dove si è venuti e dove si va, si entra in una crisi. Molto spesso può avvenire un’esperienza forte che ridimensiona tutta la nostra memoria, tutti i nostri ricordi, come ad esempio l’aver vissuto un amore forte. Anche un’esperienza spirituale profonda all’interno di una comunità religiosa, mi ridimensiona il ricordo di Dio. Perduta la memoria di Dio nello Spirito di Cristo dentro la Chiesa noi non siamo più Chiesa.
3. I pensatori hanno riflettuto molto sulla memoria. Per esempio Platone negava l’importanza del corpo e della memoria fisica. Per Agostino, la memoria era soltanto il ventre dell’anima, tuttavia nelle sue Confessioni c’è una teologia della memoria. Osservo che oggi molto spesso è assai diffuso un cliché culturale in cui si pensa alla nostra memoria come ad un hard-disk, il disco rigido di un computer. Infatti diciamo che “i nostri file” non funzionano. Questo è del tutto sbagliato, il computer non ha la memoria ma accumula soltanto i dati. Il computer non ha la memoria perché non è capace di dimenticare e non può fare lo sforzo di reinterpretare i dati con i nuovi arrivi e le perdite della memoria. Ho vissuto un’esperienza in merito a queste riflessioni in famiglia, con mio padre che soffriva del morbo di Alzheimer: sebbene il cervello fosse “distrutto” nei suoi occhi si vedevano anima e identità. Questo mi ha fatto pensare che c’è un’ontologia che si lega alla memoria, un radicamento profondo, che va oltre le reminiscenze celebrali. La memoria nell’uomo è un mistero che lo schiude al mistero di Dio. Pensando a mio padre mi domandavo se lui si ricordasse di Dio nonostante la perdita della memoria. E poi un'altra domanda: nonostante la perdita della memoria di Dio da parte di un uomo, causata anche da una malattia, Dio stesso non si ricorda di quest’uomo?
4. Esiste una teologia della memoria. Per esempio il peccato è dimenticarsi di Dio per un attimo, è la memoria di Dio, della sua Presenza, persa, velata. Dentro di noi esiste un forza che ci spinge a dimenticare Dio perché la sua Presenza è così forte che è quasi insopportabile. Il profeta Giona non sopporta la Presenza di Dio che gli comanda una missione e invece di andare a Ninive fugge nella direzione opposta a Tarsis. Allontanarsi dalla volontà di Dio equivale a metterlo così lontano che non lo ricordo più; in tale caso è la categoria della memoria di Dio ad essere messa in gioco. Per questo anche nel decalogo c’è un comandamento: “Ricordati di onorare il giorno Santo”. Perché noi siamo capaci di dimenticare di onorare il giorno Santo e con esso anche il Dio stesso, siamo fatti così. Da questo nasce la necessità dei ritmi ripetitivi della preghiera, perché altrimenti ci scordiamo di Dio. La Chiesa da sempre ha cercato di creare contesti in cui ricordarsi di Dio: spazi, profumi, gusto, colori, canto, suono, tutto per fa affiorare la memoria di Dio, per associazioni. Un grande tema da sviluppare sarebbe “essere ricordato da Dio”, la vita eterna nei salmi è definita così: Dio si è ricordato di me per sempre. Nella letteratura spirituale, una delle grandi sofferenze dei santi è sentirsi dimenticati da Dio, “Dio si è dimenticato di me”. Ma in realtà se io lo dimentico Lui si ricorda di me. C’è una teologia della memoria sviluppata da certi pensatori cristiani che dicono che esiste in ogni persona umana una memoria ontologica di Dio, cioè l’uomo non è capace di scordarsi veramente di Dio – al massimo finge di essersi dimenticato di Dio. Ma sembra che questa memoria sia tanto profonda e innata in lui, che anche se morisse tutto, essa non morirebbe perché inscritta nel più profondo di noi stessi. Proprio da quest’idea, la Chiesa potrebbe essere definita come lo spazio che a tutti questi livelli ricorda, si ricorda di Dio e ricorda Dio agli altri, ed è ricordata da Lui. La Chiesa lungo i secoli della sua vita si ricorda che è ricordata da Dio. La Chiesa è questo. La vita eterna, vivere per sempre, essere salvato per sempre, spesso è descritto come l’essere ricordato da Dio per sempre. Gli spunti di approfondimento sono molteplici: S. Basilio il Grande ha questo tema sparso ovunque nei suoi scritti; Diadoco di Fotiche, un autore della Filocalia, ha come grande tema del suo libro la memoria di Dio; dalla parte occidentale abbiamo qualcosa in Agostino ma soprattutto Giovanni della Croce ha questa dimensione nella sua mistica della “notte oscura della fede” che è legata alla memoria.
5. Il monachesimo come si pone di fronte a tutto questo? Prendiamo la concretezza monastica, perché tutto questo si realizza in modo molto concreto, per questo possiamo parlare della cultura monastica come cultura della memoria di Dio che poi fa parte ed esprime la cultura ecclesiale. Esiste una bellissima frase di un monaco bizantino, Teolepto di Filadelfia, anche lui presente nella Filocalia, che dice: “Opera del monaco è la memoria di Dio” (érgon dè toù monachoù he toù theoù mnéme estìn – Discorsi monastici 6,3). Teolepto definisce il monaco come uno che ricorda Dio, ossia dedicato a questo. Per questo autore, il nostro obiettivo dovrebbe essere liberare in noi la memoria di Dio inscritta dentro di noi ma in qualche modo dimenticata, e fare di tutto perché questa sia il primo pensiero intorno al quale poi si organizza tutto il resto della vita.
6. Chi entra in una comunità monastica entra nello spazio di memoria di quella comunità. Le suore più anziane trasmettono alle più giovani le tradizioni, come noi le chiamiamo. Le giovani vengono introdotte e istruite in questa memoria e, sulla base di questa, devono ricostruirsi la propria identità, che è la loro memoria, in e con quella della comunità. Difatti l’opera formatrice è questa: mettere insieme memoria personale, memoria comunitaria e i nuovi eventi che sfidano e avvengono. Se questi tre elementi non sboccano in una sintesi tutto crolla. Un problema nei monasteri consiste nel mantenere viva una memoria trasmessa e coltivata, e fare in modo che non diventi formalismo, cioè che non sia una memoria vuota, che non porta alla memoria di Dio vivo. Il tradizionalismo è una malattia dei conventi. Scrutare la propria memoria, scrivere una autobiografia, ricordare testi sacri, sono tutti comportamenti tipicamente praticati nei monasteri e nella Chiesa.
7. Il grande tema della vita monastica è la preghiera che è una memoria di Dio in atto, un esercizio nella memoria di Dio e la sua esperienza. La cultura monastica stima molto la pressi della preghiera. Questo è bello ed è favorito da tante cose, come lo spazio della Chiesa che già all’ingresso suscita il ricordo di Dio, con immagini, colori, profumi, colti in modo ritmico nella giornata, ecc. In Occidente siamo abbastanza poveri da questo punto di vista, ma esiste una cultura del profumo legata ai diversi ritmi liturgici; noi siamo meta-ciechi sulla questione del profumo, pensiamo che il profumo sia il fumo. Invece l’incenso è molto importante nella preghiera, che è ricordo di Dio: l’olfatto stimolato dall’incenso ne ricorda il profumo e dilata nel pensiero della memoria di Dio; ovviamente noi non cuociamo le salsicce fritte in chiesa perché la memoria andrebbe in tutt’altra direzione. Poi c’è la questione del vestito o l’abito… una volta discutevo con un gruppo di monaci piuttosto anziani, e dicevo che l’abito serve per la preghiera, la aiuta. Immaginate la vostra preghiera quotidiana comunitaria vestiti come sulla spiaggia. È un aspetto importante che la nostra tradizione monastica ha elaborato: tutto è in funzione della memoria del corpo e il corpo con l’abito monacale si ricorda in modo speciale di Dio.
8. Ma la cosa più importante in tutto l’esercizio della memoria nella preghiera sono i testi. Per buona parte della nostra vita recitiamo i testi, ricordiamo e vogliamo che essi ci occupino la memoria. Giovanni Cassiano dice che la nostra memoria è come un mulino che si muove sempre, non si ferma mai neanche la notte, perciò bisogna fornirgli sempre nuove e buona cose da “macinare”, la memoria, infatti, può anche disturbarci, allontanarci da Dio. Allora bisogna riempire la memoria, soprattutto con i testi sacri e farli girare in testa per non lasciare troppo spazio ad altri pensieri. La memoria non curata sbocca in atti disordinati (qui entra il problema di tutta la cultura moderna riguardo ai mass-media). I monaci hanno osservato che l’uomo, purtroppo, è ferito, è corrotto e se non si prende cura della propria memoria, essa lo inganna. Allora all’interno dei monasteri si è creata una cultura della memoria che difatti vuol mettere al primo posto di tutti i ricordi, il ricordo di Dio affermando che se Egli viene ricordato come il Primo, tutto il resto è ricollocato al giusto posto. Questa era la saggezza monastica sia per l’aspetto morale che contemplativo. Di fatti l’estasi contemplativa potrebbe essere descritta come l’esperienza della memoria di Dio portata all’estremo in cui l’uomo si ricorda di Dio con tanta intensità che si dimentica in Lui.
9. La memoria di Dio ha un funzionamento terapeutico. Spesso nei nostri monasteri viene gente turbata che nella vita ha provato già tutto e a cui non è rimasto più niente se non il peso del passato, desidera il perdono, lo riceve ma è comunque turbata dalla memoria. Una cosa che ho constatato è che queste persone vivendo per lunghi periodi con noi, in questi spazi poveri ma centrati su Dio, pian piano non solo recuperano la memoria di Dio come il Primo ma vengono guariti e, in qualche modo ordinati, tutti gli altri aspetti delle loro vite. Forse certi squilibri mentali di cui la nostra società è piena provengono proprio da una società che ha dimenticato Dio. Chi si ricorda di Dio, oggi, nelle grandi città che sono veri e propri deserti? I Padri monastici erano convinti che in questa sfida di coltivare la memoria esiste un disturbo che loro chiamavano vizio; ma il vizio, se ci pensate bene, che cos’è se non una ripetizione di qualcosa negativo vissuto nel passato? Come mi sono ubriacato tre giorni fa così lo ripeto oggi perché riconosco la mia identità in questa attività del corpo, della psiche e dell’anima. Il vizio blocca il progresso del percorso perché tira sempre e soltanto indietro, fa ripetere quello che si è già fatto tante volte. Il vizio si oppone al dinamismo della speranza.
10. Se il ricordo di Dio non diventa qualcosa di primario e sperimentato nella nostra memoria, soprattutto con l’andare del tempo e l’accumularsi di nuove esperienze e memorie, la personalità diventa melanconica. La melanconia è vivere il peso di una memoria che si decompone e non apre a nessun futuro perché la persona vive nello spazio dei ricordi che vengono sempre di meno. Nei grandi Padri come Doroteo di Gaza, Cassiano, troviamo tutto un insegnamento sulla memoria di Dio e la rinuncia; essi affermano che bisogna lasciare la patria, lasciare i cattivi costumi e le abitudini che abbiamo ereditato, una cosa che si eredita per esempio è il ricordo dell’aspetto corporeo dei propri genitori. Per ricordarsi di Dio, almeno in certi momenti, bisogna dimenticarsi di tutto, cioè rinunciare totalmente a qualsiasi tipo di ricordo fisico o verbale. I Padri parlavano di preghiera pura: quando, con un esercizio meditativo, i ricordi superflui vengono cancellati, la memoria di Dio che giace scritta nel fondo del cuore, implode nel cuore dell’uomo: Dio si fa presente e quando c’è la Presenza anche il ricordo non è più necessario. Questa è l’estasi, è un momento, un tocco per raggiungere il quale servono esercizi ascetici. Tutta la vita monastica, anzi ecclesiale consiste in questo, serve a questo scopo: per vivere, trasmettere, far presente oggi, anticipare questa memoria che sarà infinita. Mi pare che quanto detto sia una chiave della vita monastica che rivela anche l’essenza della Chiesa e che dovrebbe caratterizzare tutto il contesto ecclesiale universale.
© Maciej Bielawski (2003)
2. Parlare di Chiesa e di monachesimo mi si presenta difficile perché ambedue le parole – Chiesa e monachesimo – sono appesantite da tantissimi cliché. Prendiamo la parola “chiesa”. Una volta, una signora in pullman discutendo con me ha cominciato a dire: “Ah, la Chiesa questo, eh, la Chiesa quanto...” Le ho detto: “Guardi signora che anche lei fa parte della Chiesa!” e lei mi ha risposto: “No, no. La Chiesa sono preti, vescovi e cardinali. Noi siamo cristiani!” Ecco uno dei cliché quando si pensa alla Chiesa. Un altro cliché è legato al monachesimo. Frequentemente uno trova che nel pensiero corrente un monaco o una monaca siano persone che vivono in un monastero. È un cliché perché è molto riduttivo. Bisogna ricordare che il termine monaco non deriva da monastero, ma viceversa. In altre parole: non tutti coloro che vivono nei monasteri sono monaci e non tutti i monaci vivono in monasteri. Però esiste questa immagine che identifica monaco e monastero. Altri cliché: il monaco è un soggetto che pensa alla morte o che di fatto manca di vita; il monaco è uno che porta un certo abito; il monaco è uno che è migliore o più perfetto di quelli che vivono nel cosiddetto mondo. Sono cliché del modo di pensare. Allora a che cosa pensiamo affrontando il tema “Chiesa e monachesimo”?
Ambedue i termini, monaco e Chiesa, sono difficilmente definibili o piuttosto non definibili. Tuttavia si trovano le definizioni sia per “Chiesa” che per “monachesimo”. Per esempio nell’Occidente abbiamo avuto una definizione di Chiesa come “società perfetta” promossa da Bellarmino, ma va detto che questa definizione lungo i secoli ha fatto abbastanza male alla Chiesa e al mondo. Il Vaticano II non ha proposto nessuna definizione di Chiesa. Ha offerto immagini, categorie, modelli quali: Corpo Mistico, del sacramento o pre-sacramento o, in senso più biblico, popolo di Dio, vigna, ecc. L’epoca post-conciliare ha poi insistito sul tema della koinonia, cioè ha cercato di comprendere il mistero della Chiesa sotto il segno della comunione/comunità. Ma una vera e propria definizione non è stata data e non esiste. E’ come se il Mistero non volesse essere appiattito da un mero sillogismo, da concetti.
Lo stesso vale per il monachesimo. Ci sono stati tantissimi tentativi di definire chi è un monaco. Per esempio, quando si pensava alla Chiesa come ad una società composta di diversi stati, si parlava di gerarchia, di laici e in mezzo a loro, in qualche modo, non si sapeva dove se sotto o sopra, c’erano i monaci e le monache. Il monachesimo era visto in una posizione intermedia, tra laici e gerarchia. Un’altra definizione di monaco espressa da Thomas Merton nel suo libretto “La vita silenziosa” dice che “monaco è un uomo che ha lasciato tutto per impegnarsi totalmente nella ricerca di Dio”; troviamo qui due dimensioni: la rinuncia e l’impegno nella ricerca di Dio. Secondo la definizione benedettina monaco è uno che cerca Dio. Merton dice che il monaco sarebbe uno che rinuncia a tutto per dedicarsi in modo assoluto, esclusivo alla ricerca di Dio. Un altro, Raimon Panikkar, tenta una definizione introducendo il concetto dell’archetipo del monaco che è presente in ogni uomo e attraverso cui ogni persona cerca la sua pienezza, la sua unificazione e l’unione con Dio. C’è poi Bede Griffiths, che dice “monaco è un segno oltre tutti i segni”. Alcuni dizionari o enciclopedie, analizzano la parola monachòs definendolo “solitario, da solo”; altri dicono che monachòs vuol dire anche unito in sé, allora sarebbe non soltanto una rinuncia ma anche “un insieme” che viene vissuto in pienezza, un tutto, un’unificazione. Ma esistono altre definizioni di monaco, per esempio nei “Detti dei Padri del deserto” si legge che, a uno che rivolge ad un monaco la domanda: chi è il monaco? Il monaco risponde togliendosi lo scapolare, gettandolo per terra, calpestandolo con i piedi e dicendo: “questo è il monaco”. Ad un altro che pone la stessa domanda, un monaco risponde girandosi, alzando le mani che in quel momento diventano come fiamme e senza pronunciare una parola dice: “questo è il monaco”.
3. Alla fine vorrei precisare che parlo di “monaco”, ma pensando a questa comunità a cui mi rivolgo si pone il problema delle “monache” cioè del versante femminile del monachesimo e del suo rapporto con la Chiesa che magari è diverso dal rapporto tra monachesimo maschile e Chiesa. Non vorrei soffermarmi troppo su questo argomento un po’ per delicatezza e un po’ per mancata esperienza. Credo che tocchi a voi svilupparlo. Buona parte della letteratura monastica femminile è stata scritta dagli uomini; però, io quando dico monaco, monachesimo, penso più facilmente ai monaci uomini che alle monache, ma questo è un mio cliché e il mio limite mentale, lo dico apertamente. Questa è una lacuna, non soltanto nella mia proposta, ma nell’intera tradizione della Chiesa.
II. Detto questo, abbiamo visto che il problema è complesso. Cosa vuol dire Chiesa e cosa vuol dire monachesimo? Di che cosa parliamo riflettendo sulla “Chiesa e monachesimo” e come parlarne? Tra queste due realtà c’è una differenza? C’è un’affinità? C’è un’intrapenetrazione? C’è un contrasto? C’è di tutto, perché c’è un certo dinamismo tra queste due realtà e forse una si rispecchia nell’altro. Ognuno di noi pensa a qualcosa quando pensa al monaco, pensa a qualcosa quando pensa alla Chiesa e probabilmente le nostre intuizioni di base sono da una parte giuste e d’altra infettate da cliché assai falsi. Prendiamo allora alcuni esempi della storia e vediamo come la cosa è stata vissuta e vista.
1. Il giovane e appena consacrato vescovo d’Alessandria, Atanasio, fece visita alla comunità monastica di Pacomio a Tebaide. Il vescovo della diocesi, Serrapione, aveva offerto a Pacomio la sua protezione, a causa di una certa contestazione dell’ambiente nei confronti del progetto e dello stile di vita di Pacomio. Il vescovo Serrapione diceva allora ad Atanasio di Pacomio: “E’ bravo, magari potrei farlo prete, mi sarebbe utile ordinarlo sacerdote”. Mentre sussurrava queste parole all’orecchio di Atanasio, era di fronte alla comunità e a Pacomio che intuì la cosa e fuggì, nascondendosi tra i confratelli. Atanasio capì che Pacomio non voleva essere ordinato sacerdote nonostante il suo vescovo locale insistesse moltissimo sulla questione e lo lasciò stare. Atanasio però prima della sua partenza di là disse: “Poiché ti sei nascosto a noi, fuggendo quella che è la causa di gelosie, discordie, (pensava del clero - MB) il Signore ti accorda quanto desideri; tuttavia se Dio lo volesse noi ritorneremo da te, perciò fa’ che possiamo meritare di rivedere il tuo volto”. Questo disse il Patriarca di Alessandria, il Vescovo dell’Egitto a un monaco che aveva appena fondato una comunità. Si intravede un certo dinamismo, un senso di riconoscenza ma anche una tensione. In questo esempio, si evidenzia il rapporto tra la gerarchia e questi “laici senza importanza” che non si sentono migliori e che sono alle origini della vita comunitaria monastica.
2. Lo stesso Atanasio scrisse poi la “Vita di Sant’Antonio”. Questa è la prima biografia di un monaco e uno dei testi più classici, archetipo di tutti i testi delle vite dei monaci e delle monache ed è scritto da un Vescovo, non da un monaco. Quest’opera è una cripto-regola monastica mascherata come biografia. Il fatto che sia stata scritta da un Vescovo fa pensare moltissimo. E’ come se questi gli desse un riconoscimento, come se volesse promuoverlo, lasciarne una testimonianza. Inoltre, Atanasio e Antonio erano amici; quando Antonio stava per morire disse: “ricevetti questo mantello dal vescovo Atanasio che ormai è diventato vecchio, me ne sono procurato uno nuovo ma quando morirò mi seppellirete nudo e questo mio mantello lo rimanderete al Vescovo Atanasio”.
3. Molto presto in Egitto apparve un detto che si è diffuso anche in Occidente nella versione di Giovanni Cassiano in cui si dice: “il monaco deve fuggire i vescovi e le donne”. Il modo in cui Cassiano lo riporta è ironico e critico, accompagnato da un episodio simpatico. Un monaco stava percorrendo una strada, quando vide davanti a sé una donna e così, preso da spavento, cominciò a correre e in quel momento fu colpito da un ictus. Rimase paralizzato e fino alla fine dei suoi anni fu curato dalle donne. Cassiano discretamente ride su tutto questo e mostra come tutto ciò che riguarda il rapporto tra monaco-donna e anche quello monaco-vescovo (Chiesa), sia stato vissuto spesso in modo scorretto, nevrotico, malato. Ne abbiamo tantissimi esempi. Così un monaco per non essere ordinato sacerdote si tagliò le orecchie perché esisteva la regola che uno per essere ordinato non doveva essere fisicamente deforme. In questo caso il rapporto tra monachesimo e gerarchia era vissuto e visto in modo drammatico, anche se apparentemente ridicolo. Questo ovviamente riguarda il monachesimo maschile, ma nel versante femminile esiste lo stesso problema. Esiste pure un galoppante e sgradevole anticlericalismo anzi un anti-ecclesialismo monastico, un esclusivismo piuttosto malato. La convivenza tra monaci e clero secolare spesso un tempo era dolorosa. Per esempio San Benedetto fece due esperienze. Una fu bella e positiva: quando dopo un periodo della vita solitaria giunse da lui un sacerdote che gli portò del cibo e gli chiese di pregare insieme, perché era la Pasqua, Benedetto gli rispose: “Se tu vieni oggi da me è veramente la Pasqua”. Una esperienza invece fu negativa. Successe che quando a Subiaco intorno a San Benedetto si formò una comunità, un sacerdote della zona, preso da gelosia, rese al monaco la vita impossibile e Benedetto non volendo più conflitti con un esponente del clero locale fece i bagagli e si spostò a Montecassino.
4. Inizialmente il monachesimo fuggiva dalla Chiesa divenuta troppo mondana, e si creava centri lontani da essa, ma poi, nel tempo, la invase. Questa si potrebbe chiamare monachinizzazione della Chiesa. Da questo fatto proviene una tradizione che in Oriente è divenuta una regola (in Occidente varia con le epoche), per cui oggi solo un monaco può diventare vescovo. Per cui, se dapprima i monaci fuggivano i vescovi, più tardi soltanto i monaci potevano diventare vescovi. Un bel cambiamento. In Occidente poi avvenne la riforma gregoriana in cui soprattutto Pier Damiani ebbe il forte desiderio di riformare il clero monachinizzandolo. In questo processo il monaco veniva presentato come un chierichetto perfetto di fronte a quello imperfetto proveniente dal clero diocesano. Questa idea è durata a lungo nella Chiesa latina. Ma tutto questo ha dato anche un duro colpo al monachesimo stesso perché in effetti il clero non si è monachenizzato, ma sicuramente il monachesimo si è clericalizzato. È uno degli effetti che si riscontra nei monasteri ancora oggi. Anche qui ci si potrebbe chiedere quale conseguenza abbiano portato, sia la monachinizzazione del clero, sia la clericalizzazione del monachesimo nel monachesimo femminile. Cercate voi la risposta.
5. Esiste qualcosa che si potrebbe chiamare “orgoglio monastico”. Gesù ha detto “Voi siete il sale della terra”. All’inizio questa Parola era riferita ai cristiani nel mondo. Pian piano, quando il mondo si fece cristiano e la Chiesa decadente, i monaci divennero il sale, e la terra non salata, il “resto” della Chiesa. Quando poi anche il monachesimo divenne decadente l’eremita diventò il sale, e la terra non salata furono i monasteri malandati con tutta la Chiesa. Da qui, poi, proviene il modo di pensare che non solo “extra ecclesiam nulla salus”, ma anche “extra monasteri nulla salus”, cioè che fuori dal monastero nessuno si salva. Quest’idea divenne molto forte in tutto il cristianesimo e per secoli. Per queste ragioni la gente laica desiderava essere almeno seppellita in abiti monastici, credendo che così si sarebbe arrivati più facilmente e in modo sicuro in Paradiso. Con questo “orgoglio monastico”, il monachesimo portava all’interno della Chiesa un cattivo esclusivismo: la convinzione di essere il migliore, la necessità quindi di farsi monaci perché gli altri non sono perfetti. Oggi guardiamo con un certo sospetto ai nuovi movimenti ecclesiali che sono arroganti allo stesso modo in cui noi lo eravamo in passato. Siamo intolleranti dicendo: ma che fanno?, pensano che noi tutti dobbiamo diventare come loro? Però fino a poco tempo fa anche noi eravamo così.
6. Oggi però il monachesimo è umiliato. Il monachesimo non è più il protagonista nella vita della Chiesa. Ogni tanto ancora i monaci si sentono a disagio per questo cambiamento. Alcuni cercano di giustificare la loro presenza nella Chiesa rendendosi utili, inventando milioni di attività, altri abbandonano lo stile di vita monastico e altri ancora si chiudono nei loro piccoli mondi claustrali illudendosi che prima o poi il mondo o la Chiesa, o almeno l’eternità, darà loro retta – ma tutti questi atteggiamenti testimoniano e generano soltanto una sterilità spirituale. Si è cambiato il paradigma di santità e con questo si è ridimensionata anche la presenza monastica nella chiesa e nel mondo. Parlando con molti monaci e monache si nota come tutti hanno una certa difficoltà a ritrovarsi in questo tempo di transizione. Paradossalmente, come in passato ci si chiedeva se era possibile salvarsi fuori dal monastero, oggi i monaci spesso si pongono la domanda: ma è ancora possibile vivere il vangelo dentro i monasteri? E’ una strana evoluzione di cui siamo oggi testimoni. Bisogna capire che se dopo un certo periodo di tempo alcuni lasciano il monastero, spesso non lo fanno per cattiveria, ma perché semplicemente non vedono la possibilità di vivere il vangelo nelle strutture monastiche attuali. I monaci oggi si domandano: ma tutto questo è ancora legato al vangelo? Si pongono la domanda: posso allora salvarmi vivendo nel monastero? E’ una grande parabola quella che ha vissuto il monachesimo: dall’essere convinto che soltanto così uno si salva, alla domanda se vivendo così uno veramente può salvarsi. Questo è veramente tragico ma è così e bisogna vedere la realtà così come è. Chi entra oggi in monastero e non si pone questa domanda, è sincero? Poco tempo fa, un anziano monaco, ormai settantacinquenne, mi chiese: “Che devo fare? Ho fatto il monaco tutta la vita, non so fare niente altro, ma mi sento che ho mancato qualcosa del vangelo. Vorrei lasciare e fare il pellegrino o qualcos’altro per meglio amare il Signore e non so come, non so che cosa dovrei fare? Ma, mi sembra che qui tutto non funzioni”. Non era semplicemente una domanda di un monaco in crisi. Dietro queste sue domande giaceva una vera ricerca di Dio e una vera preoccupazione per la salvezza e per la testimonianza al vangelo.
7. La lezione d’umiltà continua. Sicuramente il monachesimo c’è e ci sarà, ma una delle cose che mi chiedo è: qual è la lezione della storia? Qual è il punto di tutto questo? Cercando una risposta a tale domanda, sono arrivato a questa conclusione, che la Chiesa ha conosciuto i tempi e gli spazi in cui il monachesimo non c’era. Per esempio i primi tre secoli della Chiesa non hanno conosciuto il monachesimo come tale. Allora è possibile immaginare la Chiesa senza il monachesimo? O pensiamo alle terre delle persecuzioni... Perché la vita monastica richiede un certo accordo con lo Stato, un certo possesso di beni, un certo status liturgico, una certa “calma” in cui i monaci entrano e muovono questo mulino. Quando queste cose mancano, come mancavano recentemente nei paesi dove il cristianesimo era perseguitato è nato pure un detto: “Noi oggi non abbiamo più bisogno dei monaci, perché abbiamo dei martiri”. In altre parole si potrebbe dire che il monachesimo nella Chiesa non è necessario – la storia conferma questa opinione. Detto tutto questo penso che il monachesimo sia un carisma dentro la Chiesa e per la Chiesa che può essere suscitato dallo Spirito ogni tanto, in qualche luogo, per un servizio all’interno del Corpo Mistico. Direi che non sia una soluzione migliore di altre, abbiamo imparato anche questo. Non è una proposta perfetta. Questo la storia ce lo dice chiaramente. Però il monachesimo è una forma che ha funzionato e funziona, è una soluzione positiva. Ogni tanto penso che il monachesimo sia un compromesso storico. Se la Chiesa fosse perfetta o se il mondo potesse essere senza peccato, i monasteri e la vita monastica non sarebbero necessari, ma poiché la realtà è contaminata, bisogna creare luoghi, spazi e ritmi di vita che rendano possibili la ricerca di Dio e la santità anche sotto il segno della vita monastica. Ma questo è un compromesso storico e non una esigenza assoluta, e se guardiamo bene alla storia dell’umanità, anche oltre al cristianesimo, il monachesimo è una delle invenzioni (divino-umane) meglio riuscite lungo i secoli. Il monachesimo, nonostante la sua fragilità nella storia passata e presente, è una delle avventure dell’umanità con Dio assai riuscite, pur nel suo piccolo, nel suo limite. Il divino si lascia vivere, irradiare, la grazia può andare ovunque, però, forse Dio può parlare più facilmente attraverso una realtà monastica – almeno per alcuni. Si potrebbe dire: “Anche nei monasteri si può vivere il vangeli”. Questo non è poco.
III. Abbiamo visto che c’è una certa tensione nel cogliere insieme le due realtà “Chiesa e monachesimo”. Dando sopra questi sette esempi volevo mostrare un mosaico abbastanza complesso di questo problema. Spesso pensare sia la Chiesa sia il monachesimo in una prospettiva, troppo istituzionale o troppo esteriore, porta ad una strada senza uscita. Questo è accaduto tante volte. Allora bisogna fuggire da queste strade. I Padri monastici parlavano del discernimento degli spiriti, cioè quei pensieri che girano nel cuore, risiedono nella testa e giacciono nel corpo. Bisogna rendersi conto di quali siano i pensieri cattivi per cacciarli e quali siano invece quelli buoni per seguirli. Io penso che sulla questione Chiesa-monachesimo abbiamo tanti pensieri, bisogna valutarli tutti, ma poi seguire quelli giusti. Perciò ora cambio totalmente registro. Mi sono posto la domanda: se dovessi ora scrivere un’ecclesiologia, quale categoria mi piacerebbe usare? Lo stesso ho fatto per il monachesimo. E mi sono detto che, sia per la Chiesa che per il monachesimo, una delle categorie fondamentali secondo me è la memoria di Dio. La Chiesa è una comunità della memoria di Dio Padre, nella potenza dello Spirito Santo insieme con Gesù Cristo. Lo stesso vale per il monachesimo. Anzi: il monachesimo è una cultura della memoria di Dio. Parlerò allora del monachesimo come di una cultura della memoria di Dio e attraverso questo si potrà capire anche che cos’è la Chiesa. D’ora in poi rifletterò sulla memoria e sul monachesimo e cercherò di vedere anche la Chiesa in questa prospettiva. Quanto mi propongo di fare è una ricerca del pensiero che non è finito né definito, è solamente un abbozzo. Anche in questo caso propongo alcuni punti.
1. Bisogna iniziare con alcune domande. Perché ricordiamo? Che cosa si ricorda? Ricordiamo tutto ciò che registriamo o no? Che cosa è la memoria?
2. Si possono fare alcune osservazioni di tipo fenomenologico. Senza memoria è impossibile pensare. Se non si possiede memoria delle parole italiane, non è possibile capire quanto è scritto qui. Esiste una base fisica della memoria che si chiama memoria del corpo ed è molto più forte di quella mentale e che è abitudine, come per esempio il modo di dormire, il gusto di mangiare, le reazioni che manifestiamo quando siamo stanchi o arrabbiati. Tutto questo è inscritto nella memoria del nostro corpo. Senza questa memoria non si può mangiare, camminare, dormire; se uno si dimentica di dormire muore, la perdita di tale memoria genera uno stato di malattia. Senza memoria allora non è possibile vivere. Ma d’altra parte, una memoria o un ricordo può ucciderci. Il ricordo di qualche cosa, un’ossessione del passato, può nuocere fino alla morte. Ecco l’ambiguità della memoria. Senza una memoria, una persona o una comunità non ha identità. La memoria aiuta, la memoria disturba, la memoria molto spesso condiziona le nostre scelte di oggi, la memoria è sempre viva, si arricchisce. Io da oggi sarò diverso nella mia memoria dopo aver visitato questa casa, mi sarò arricchito di qualcosa, ma lo vedo nella luce della mia memoria accumulata, non sono libero, sono condizionato. La memoria si perde, uno si sente smarrito e si domanda: da dove vengo? dove devo andare? Sia in senso fisico che esistenziale, se non ci si ricorda da dove si è venuti e dove si va, si entra in una crisi. Molto spesso può avvenire un’esperienza forte che ridimensiona tutta la nostra memoria, tutti i nostri ricordi, come ad esempio l’aver vissuto un amore forte. Anche un’esperienza spirituale profonda all’interno di una comunità religiosa, mi ridimensiona il ricordo di Dio. Perduta la memoria di Dio nello Spirito di Cristo dentro la Chiesa noi non siamo più Chiesa.
3. I pensatori hanno riflettuto molto sulla memoria. Per esempio Platone negava l’importanza del corpo e della memoria fisica. Per Agostino, la memoria era soltanto il ventre dell’anima, tuttavia nelle sue Confessioni c’è una teologia della memoria. Osservo che oggi molto spesso è assai diffuso un cliché culturale in cui si pensa alla nostra memoria come ad un hard-disk, il disco rigido di un computer. Infatti diciamo che “i nostri file” non funzionano. Questo è del tutto sbagliato, il computer non ha la memoria ma accumula soltanto i dati. Il computer non ha la memoria perché non è capace di dimenticare e non può fare lo sforzo di reinterpretare i dati con i nuovi arrivi e le perdite della memoria. Ho vissuto un’esperienza in merito a queste riflessioni in famiglia, con mio padre che soffriva del morbo di Alzheimer: sebbene il cervello fosse “distrutto” nei suoi occhi si vedevano anima e identità. Questo mi ha fatto pensare che c’è un’ontologia che si lega alla memoria, un radicamento profondo, che va oltre le reminiscenze celebrali. La memoria nell’uomo è un mistero che lo schiude al mistero di Dio. Pensando a mio padre mi domandavo se lui si ricordasse di Dio nonostante la perdita della memoria. E poi un'altra domanda: nonostante la perdita della memoria di Dio da parte di un uomo, causata anche da una malattia, Dio stesso non si ricorda di quest’uomo?
4. Esiste una teologia della memoria. Per esempio il peccato è dimenticarsi di Dio per un attimo, è la memoria di Dio, della sua Presenza, persa, velata. Dentro di noi esiste un forza che ci spinge a dimenticare Dio perché la sua Presenza è così forte che è quasi insopportabile. Il profeta Giona non sopporta la Presenza di Dio che gli comanda una missione e invece di andare a Ninive fugge nella direzione opposta a Tarsis. Allontanarsi dalla volontà di Dio equivale a metterlo così lontano che non lo ricordo più; in tale caso è la categoria della memoria di Dio ad essere messa in gioco. Per questo anche nel decalogo c’è un comandamento: “Ricordati di onorare il giorno Santo”. Perché noi siamo capaci di dimenticare di onorare il giorno Santo e con esso anche il Dio stesso, siamo fatti così. Da questo nasce la necessità dei ritmi ripetitivi della preghiera, perché altrimenti ci scordiamo di Dio. La Chiesa da sempre ha cercato di creare contesti in cui ricordarsi di Dio: spazi, profumi, gusto, colori, canto, suono, tutto per fa affiorare la memoria di Dio, per associazioni. Un grande tema da sviluppare sarebbe “essere ricordato da Dio”, la vita eterna nei salmi è definita così: Dio si è ricordato di me per sempre. Nella letteratura spirituale, una delle grandi sofferenze dei santi è sentirsi dimenticati da Dio, “Dio si è dimenticato di me”. Ma in realtà se io lo dimentico Lui si ricorda di me. C’è una teologia della memoria sviluppata da certi pensatori cristiani che dicono che esiste in ogni persona umana una memoria ontologica di Dio, cioè l’uomo non è capace di scordarsi veramente di Dio – al massimo finge di essersi dimenticato di Dio. Ma sembra che questa memoria sia tanto profonda e innata in lui, che anche se morisse tutto, essa non morirebbe perché inscritta nel più profondo di noi stessi. Proprio da quest’idea, la Chiesa potrebbe essere definita come lo spazio che a tutti questi livelli ricorda, si ricorda di Dio e ricorda Dio agli altri, ed è ricordata da Lui. La Chiesa lungo i secoli della sua vita si ricorda che è ricordata da Dio. La Chiesa è questo. La vita eterna, vivere per sempre, essere salvato per sempre, spesso è descritto come l’essere ricordato da Dio per sempre. Gli spunti di approfondimento sono molteplici: S. Basilio il Grande ha questo tema sparso ovunque nei suoi scritti; Diadoco di Fotiche, un autore della Filocalia, ha come grande tema del suo libro la memoria di Dio; dalla parte occidentale abbiamo qualcosa in Agostino ma soprattutto Giovanni della Croce ha questa dimensione nella sua mistica della “notte oscura della fede” che è legata alla memoria.
5. Il monachesimo come si pone di fronte a tutto questo? Prendiamo la concretezza monastica, perché tutto questo si realizza in modo molto concreto, per questo possiamo parlare della cultura monastica come cultura della memoria di Dio che poi fa parte ed esprime la cultura ecclesiale. Esiste una bellissima frase di un monaco bizantino, Teolepto di Filadelfia, anche lui presente nella Filocalia, che dice: “Opera del monaco è la memoria di Dio” (érgon dè toù monachoù he toù theoù mnéme estìn – Discorsi monastici 6,3). Teolepto definisce il monaco come uno che ricorda Dio, ossia dedicato a questo. Per questo autore, il nostro obiettivo dovrebbe essere liberare in noi la memoria di Dio inscritta dentro di noi ma in qualche modo dimenticata, e fare di tutto perché questa sia il primo pensiero intorno al quale poi si organizza tutto il resto della vita.
6. Chi entra in una comunità monastica entra nello spazio di memoria di quella comunità. Le suore più anziane trasmettono alle più giovani le tradizioni, come noi le chiamiamo. Le giovani vengono introdotte e istruite in questa memoria e, sulla base di questa, devono ricostruirsi la propria identità, che è la loro memoria, in e con quella della comunità. Difatti l’opera formatrice è questa: mettere insieme memoria personale, memoria comunitaria e i nuovi eventi che sfidano e avvengono. Se questi tre elementi non sboccano in una sintesi tutto crolla. Un problema nei monasteri consiste nel mantenere viva una memoria trasmessa e coltivata, e fare in modo che non diventi formalismo, cioè che non sia una memoria vuota, che non porta alla memoria di Dio vivo. Il tradizionalismo è una malattia dei conventi. Scrutare la propria memoria, scrivere una autobiografia, ricordare testi sacri, sono tutti comportamenti tipicamente praticati nei monasteri e nella Chiesa.
7. Il grande tema della vita monastica è la preghiera che è una memoria di Dio in atto, un esercizio nella memoria di Dio e la sua esperienza. La cultura monastica stima molto la pressi della preghiera. Questo è bello ed è favorito da tante cose, come lo spazio della Chiesa che già all’ingresso suscita il ricordo di Dio, con immagini, colori, profumi, colti in modo ritmico nella giornata, ecc. In Occidente siamo abbastanza poveri da questo punto di vista, ma esiste una cultura del profumo legata ai diversi ritmi liturgici; noi siamo meta-ciechi sulla questione del profumo, pensiamo che il profumo sia il fumo. Invece l’incenso è molto importante nella preghiera, che è ricordo di Dio: l’olfatto stimolato dall’incenso ne ricorda il profumo e dilata nel pensiero della memoria di Dio; ovviamente noi non cuociamo le salsicce fritte in chiesa perché la memoria andrebbe in tutt’altra direzione. Poi c’è la questione del vestito o l’abito… una volta discutevo con un gruppo di monaci piuttosto anziani, e dicevo che l’abito serve per la preghiera, la aiuta. Immaginate la vostra preghiera quotidiana comunitaria vestiti come sulla spiaggia. È un aspetto importante che la nostra tradizione monastica ha elaborato: tutto è in funzione della memoria del corpo e il corpo con l’abito monacale si ricorda in modo speciale di Dio.
8. Ma la cosa più importante in tutto l’esercizio della memoria nella preghiera sono i testi. Per buona parte della nostra vita recitiamo i testi, ricordiamo e vogliamo che essi ci occupino la memoria. Giovanni Cassiano dice che la nostra memoria è come un mulino che si muove sempre, non si ferma mai neanche la notte, perciò bisogna fornirgli sempre nuove e buona cose da “macinare”, la memoria, infatti, può anche disturbarci, allontanarci da Dio. Allora bisogna riempire la memoria, soprattutto con i testi sacri e farli girare in testa per non lasciare troppo spazio ad altri pensieri. La memoria non curata sbocca in atti disordinati (qui entra il problema di tutta la cultura moderna riguardo ai mass-media). I monaci hanno osservato che l’uomo, purtroppo, è ferito, è corrotto e se non si prende cura della propria memoria, essa lo inganna. Allora all’interno dei monasteri si è creata una cultura della memoria che difatti vuol mettere al primo posto di tutti i ricordi, il ricordo di Dio affermando che se Egli viene ricordato come il Primo, tutto il resto è ricollocato al giusto posto. Questa era la saggezza monastica sia per l’aspetto morale che contemplativo. Di fatti l’estasi contemplativa potrebbe essere descritta come l’esperienza della memoria di Dio portata all’estremo in cui l’uomo si ricorda di Dio con tanta intensità che si dimentica in Lui.
9. La memoria di Dio ha un funzionamento terapeutico. Spesso nei nostri monasteri viene gente turbata che nella vita ha provato già tutto e a cui non è rimasto più niente se non il peso del passato, desidera il perdono, lo riceve ma è comunque turbata dalla memoria. Una cosa che ho constatato è che queste persone vivendo per lunghi periodi con noi, in questi spazi poveri ma centrati su Dio, pian piano non solo recuperano la memoria di Dio come il Primo ma vengono guariti e, in qualche modo ordinati, tutti gli altri aspetti delle loro vite. Forse certi squilibri mentali di cui la nostra società è piena provengono proprio da una società che ha dimenticato Dio. Chi si ricorda di Dio, oggi, nelle grandi città che sono veri e propri deserti? I Padri monastici erano convinti che in questa sfida di coltivare la memoria esiste un disturbo che loro chiamavano vizio; ma il vizio, se ci pensate bene, che cos’è se non una ripetizione di qualcosa negativo vissuto nel passato? Come mi sono ubriacato tre giorni fa così lo ripeto oggi perché riconosco la mia identità in questa attività del corpo, della psiche e dell’anima. Il vizio blocca il progresso del percorso perché tira sempre e soltanto indietro, fa ripetere quello che si è già fatto tante volte. Il vizio si oppone al dinamismo della speranza.
10. Se il ricordo di Dio non diventa qualcosa di primario e sperimentato nella nostra memoria, soprattutto con l’andare del tempo e l’accumularsi di nuove esperienze e memorie, la personalità diventa melanconica. La melanconia è vivere il peso di una memoria che si decompone e non apre a nessun futuro perché la persona vive nello spazio dei ricordi che vengono sempre di meno. Nei grandi Padri come Doroteo di Gaza, Cassiano, troviamo tutto un insegnamento sulla memoria di Dio e la rinuncia; essi affermano che bisogna lasciare la patria, lasciare i cattivi costumi e le abitudini che abbiamo ereditato, una cosa che si eredita per esempio è il ricordo dell’aspetto corporeo dei propri genitori. Per ricordarsi di Dio, almeno in certi momenti, bisogna dimenticarsi di tutto, cioè rinunciare totalmente a qualsiasi tipo di ricordo fisico o verbale. I Padri parlavano di preghiera pura: quando, con un esercizio meditativo, i ricordi superflui vengono cancellati, la memoria di Dio che giace scritta nel fondo del cuore, implode nel cuore dell’uomo: Dio si fa presente e quando c’è la Presenza anche il ricordo non è più necessario. Questa è l’estasi, è un momento, un tocco per raggiungere il quale servono esercizi ascetici. Tutta la vita monastica, anzi ecclesiale consiste in questo, serve a questo scopo: per vivere, trasmettere, far presente oggi, anticipare questa memoria che sarà infinita. Mi pare che quanto detto sia una chiave della vita monastica che rivela anche l’essenza della Chiesa e che dovrebbe caratterizzare tutto il contesto ecclesiale universale.
© Maciej Bielawski (2003)